La bicicletta nell’arte fino alla Grande Guerra, parte prima
Nei primi anni del ‘900 la bicicletta ha conosciuto la sua consacrazione tecnica, molte soluzioni inventate a quell’epoca sono tutt’oggi utilizzate. Pensiamo per esempio al cambio interno al mozzo, il brevetto di Sturmey Archer è del 1902.
La bici diventa più veloce, arrivano i telai aperti (a diamante, definizione ancora in uso) per il gentil sesso, si da il via alle grandi corse a tappe col Tour che parte nel 1903, sei anni dopo tocca al Giro ed è tutto un fiorire di manifestazioni sia sportive che turistiche.
La bici è simbolo di progresso, le aziende stesse si modernizzano, la produzione cresce, i prezzi calano e la bicicletta inizia ad essere alla portata di tutti o quasi.
Da bene elitario a prodotto di massa.
Di pari passo con la sue evoluzione tecnica procede quella artistica.
Si, la bicicletta continua a mantenere una sua aurea di rottura, una sottile vena ribelle contro le convenzioni sociali ma non così dirompente come sul finire del secolo precedente e di cui abbiamo parlato in questo articolo.
Seppure stretta dal progresso dei veicoli a motore, loro si ancora elitari, proprio questo suo essere divenuta accessibile a larghe fasce della popolazione le permette di non farsi sommergere.
Anzi, con l’avvicinarsi della Grande Guerra e soprattutto con la sfacelo economico e sociale che ne seguirà, la bici diverrà simbolo e strumento di riscatto. Ma di questo parleremo un’altra volta.
I primi 15 anni del ‘900 furono ricchi di inventiva e creatività, in tutte le arti. Tanti romanzi pubblicati in quel periodo sono divenuti classici senza tempo, li leggiamo ancora adesso con piacere.
La pittura non fu da meno, in tanta abbondanza serve operare una selezione; che non prende in esame il fattore puramente artistico o estetico ma, come fatto con il primo articolo, il simbolismo assunto dalla bicicletta nel suo divenire specchio della società o anticipatrice di future istanze.
Senza pretesa di indossare i panni del critico d’arte che non sono.
Parto da un’opera in cui credo tutti ci siamo almeno una volta imbattuti: Alphonse Mucha, Cycles Perfecta, 1902
Alfons Maria Mucha, poi francesizzato in Alphonse, nacque in Moravia, regione che attualmente fa parte delle Repubblica Ceca. Si vide negato l’accesso all’Accademia di Belle Arti di Praga, addirittura col suggerimento di dedicarsi a una professione differente. Avere un incarico di rilievo non ha mai significato meritarlo.
Ma questo non riuscì ad abbattere Mucha, piuttosto ad allontanarlo, oggi la definiremmo fuga di cervelli scoprendo che è problema antico.
Così sul finire dell’800 si trasferì a Vienna, capitale in gran fermento artistico e architettonico. Chi di noi ha avuto il piacere di passarvi qualche giorno ricorda sicuramente con stupore e rispetto la Ringstraße, che vide la luce proprio in quegli anni. Ma un tragico evento e il suo ritrovarsi senza un lavoro lo obbligarono a un rapido rientro in patria, per ripartirne poi in direzione Parigi.
Dove esplose e trovò consacrazione il suo talento, facendolo diventare in breve uno dei maggiori esponenti dell’Art Noveau.
Ma dove si mostrò appieno anche la poliedricità di Mucha, che si divise tra pittura, scultura e fotografia (fu tra i primi a fotografare Gauguin, con cui condivideva lo stesso stabile e se penso invece ai condomini con cui ho a che fare io…).
Però prima di divenire una star, perché come tale fu accolto negli Stati Uniti qualche anno dopo, serviva portare a casa la pagnotta.
Parigi in quegli anni era una costante galleria a cielo aperto grazie ai manifesti pubblicitari. Vere e proprie opere d’arte.
Ed è qui che si colloca Cycles perfecta, che è appunto una marca di bici che però non sceglie direttamente per la propria pubblicità la mano di Mucha.
Tale l’importanza in quegli anni della pubblicità, il suo essere scoperta come fondamentale veicolo di comunicazione che fu proprio allora che nacquero quelle che oggi definiremmo agenzie di marketing. Quella con cui Mucha collaborò fu la F. Champenois Imprimeur-Editeur, che di fatto stipendiava gli artisti per la produzione delle più svariate campagne pubblicitarie.
I manifesti a tema ciclistico in quel periodo furono centinaia, ma ho scelto quello di Mucha proprio perché il più rappresentativo di molti aspetti.
Quello artistico, è stato come detto uno dei maggiori esponenti dell’Art Noveau.
Quello economico, se volessimo andare alla creazione delle prime agenzie di comunicazione in chiave moderna dovremmo per forza far riferimento alla Parigi dei primi del ‘900.
Quello sociale, perché il soggetto è una ragazza, una Marianna dall’indomita chioma che abita l’intero poster e vuole trasmettere l’euforia dell’andare in bici e donare senso di movimento malgrado la staticità della posa, trasmettendo al contempo il messaggio che la bicicletta è adatta alle donne, in netta contrapposizione coi pregiudizi dei due decenni precedenti.
Quello tecnico, con una delle prime bici da donna (era stata inventata tre anni prima in Inghilterra, patria anche del committente di questo poster) ma di fatto iniziò a diffondersi proprio nel 1902, anno dell’opera di Mucha.
Però l’ultima indicazione non è del tutto esatta: noi lo definiamo tecnico, nella realtà è un passo avanti (o indietro, dipende da come lo guardiamo) per la moralità, visto che il telaio a diamante nasce per rendere meno “sconveniente” l’uso della bici per le donne. A discapito della tecnica come la intendiamo noi appassionati, che ben sappiamo come il telaio a diamante in realtà sia poco efficace per rigidità e trasmissione dell’energia.
Comunque siamo ben lontani dalla guerra dei due decenni precedenti contro le donne in bici.
Non siamo però troppo lontani dall’evento più catastrofico del ventesimo secolo: la prima guerra mondiale.
In molte capitali europee si continua a danzare come nel salone del Titanic, ignari che da lì a poco una serie di piccoli eventi sarà capace di legarsi forgiando la catena della più insensata guerra che l’umanità abbia conosciuto; ammesso esista una guerra sensata.
E io con un salto di un decennio mi avvicino proprio a quella fatidica data per parlarvi di Jean Metzinger.
Nato in Francia nel 1883, nome completo Jean Dominique Antony Metzinger, è stato pittore, scrittore e poeta, perché l’arte non ha steccati. Fu dapprima influenzato dal neoimpressionismo, poi seguì i sentieri del divisionismo e del fauvismo per approdare infine al cubismo.
Se guardiamo al puro dato artistico forse la mia scelta non vi propone uno dei massimi esponenti del cubismo, schiacciato dai mostri sacri Braque e Picasso ma qui stiamo seguendo una diversa linea di pensiero.
Prima di andare all’opera da me selezionata, una curiosità. Se noi tutti conosciamo il cubismo, forse non tutti sanno però che questa definizione nacque con intenti derisori se non addirittura denigratori.
La parola “cubismo” fu usata per la prima volta in maniera derisoria da Henri Matisse, come testimonia il poeta Guillaume Apollinaire, nel 1908: Matisse era membro della giuria del Salon d’automne, che aveva rifiutato cinque dei sette quadri inviati da Georges Braque. Fu poi il critico d’arte Louis Vauxcelles a parlare di “pittura fatta a cubi” commentando, nel novembre del 1908, una mostra retrospettiva di Cézanne del 1907, all’Estaque di Marsiglia. In questa occasione disse: “Braque maltratta le forme, riduce tutto, luoghi, figure, case, a schemi geometrici, a cubi”. Questo ultimo termine non dispiacque a Braque e ai pittori della nuova scuola, tanto che da allora le opere di Pablo Picasso, Braque e altri vennero denominate cubiste.
Il cubismo ha conosciuto tre sue fasi evolutive. La prima, il protocubismo, semplifica le forme geometricamente e le riduce a puri volumi elementari; la seconda, il cubismo analitico, raffigura il soggetto in superfici frammentate guardandolo da diversi punti di vista, anziché da uno solo, come accadeva nella tradizionale visione prospettica; la terza, il cubismo sintetico, ricompone le forme scomposte inserendo piani larghi e dipinti con colori più accesi.
L’opera di Metzinger intitolata Al velodromo si colloca nella seconda fase, sia per stile che per anno poiché è del 1912.
L’artista francese raffigura il proprio soggetto attraverso un linguaggio prettamente cubista, unendo uno sport popolare come il ciclismo ai tentativi di rendere e definire in pittura la velocità e la quarta dimensione, il tempo, a cui allude quel numero “4” che appare sullo sfondo, sugli spalti del velodromo, alle spalle del ciclista protagonista della tela.
Ma fin qui non è chiaro perché abbia scelto Metzinger.
Ci arrivo adesso. L’opera Al velodromo illustra gli ultimi metri della famosa corsa ciclistica Parigi‐Roubaix e raffigura Charles Crupelandt, vincitore dell’edizione del 1912. Gara che noi sappiamo si chiude proprio con quell’ultimo giro e mezzo nel velodromo di Roubaix.
La Parigi‐Roubaix si è guadagnata diversi soprannomi: “Inferno del Nord”, per l’estrema difficoltà dei percorsi sul pavé in cui si trovano impegnati i corridori, “Regina delle classiche” e “Corsa di Pasqua”. E adesso la chiamiamo “Classica monumento”.
Chiunque tra noi ami la bici non è mai rimasto insensibile al fascino della Parigi Roubaix, ha sognato almeno una volta di pedalare su quel pavé maledetto, immaginato lo scatto nella Foresta di Arenberg: per questo ho voluto qui l’opera di Metzinger.
Ma anche perché segna l’ingresso nell’arte del ciclismo eroico, fatto di fatica e sacrifici, di imprese epiche e disfatte clamorose, di stelle che seppero brillare per anni e rapide comete che durarono lo spazio di uno sguardo, di pochi eroi entrati nel mito di questo sport e troppi gregari di cui si è ingiustamente persa memoria.
E poi c’è una apparente antinomia che mi ha sempre affascinato in quest’opera. Perché il cubismo è forse la corrente più intellettiva del XX secolo, con questo suo scomporre, ricomporre, stravolgere i piani visivi e temporali. Insomma, di immediato c’è nulla, l’osservatore deve compiere uno sforzo per decifrare l’opera. Mentre la bicicletta è ormai divenuta popolare, lo sport del ciclismo è divenuto popolare, i ciclisti che gareggiano vengono dal popolo, quello delle campagne, della miseria, della fame mai saziata.
Ecco, l’incontro tra una astrazione tutta intellettuale e un oggetto popolare che già inizia a mostrarsi come possibilità di riscatto dalla miseria per la popolazione più indigente, quella che ad astrarsi non ci pensa proprio perché impegnata a procurarsi almeno un pasto al giorno può sembrare qualcosa che non sarebbe dovuto verificare.
Invece l’incontro c’è stato perché è difficile resistere al fascino della bicicletta.
Mi avvio a chiudere con altro artista sempre nel filone del cubismo: Lyonel Feininger.
Qui la scelta non ha solo motivazioni storiche, sociali, politiche, di costume. No, c’è anzitutto la volontà di rendere omaggio a un artista che amò la bici in quanto tale.
Già, perché Lyonel Feininger, nato a New York ma vissuto quasi sempre in Europa dividendosi tra Francia e Germania fino al rientro in patria per sfuggire alla persecuzione nazista (la moglie era in parte ebrea) dopo che le sue opere furono messe al bando perché definite dal regime arte degenerata, è un pedalatore come noi.
Ama passeggiare e ama ancor più girovagare in bicicletta.
Nelle sue pedalate porta sempre con sé un blocco per appunti nel quale fissa con tratti veloci quanto osserva: un primo studio secondo natura, che Feininger ha sempre considerato indispensabile. Nella maggior parte dei casi, su questi “Naturnotizen” (“appunti dalla natura”, come lui stesso li definisce), figurano la data e il luogo precisi: fogli che venivano poi bucati e conservati in un classificatore. Per decenni gli serviranno come spunto per le opere dipinte in atelier.
Come molti artisti suoi contemporanei sviluppò il suo talento in modo poliforme, seppure rinnegò i suoi primi lavori arrivando a dire: “…sono appena un artista, comunque mai in quegli stupidi scherzi per i quali sono noto…”.
E sempre come i suoi contemporanei arrivò al cubismo (e lo superò, anche) dopo essersi cimentato in altre correnti artistiche.
La sua opera più famosa a tema ciclistico è La gara di biciclette del 1912.
Qui l’estetica cubista è ancor più accentuata rispetto all’opera di Metzinger, gli unici tratti che non terminano in angoli e spigoli sono le ruote delle bici, eppure come sempre in ogni opera d’arte c’è più di quanto il colpo di pennello voglia mostrare.
C’è l’esaltazione del gesto sportivo, si legge la passione del ciclista.
Ma non basta.
La gara in bici diviene metafora della vita, della sua competitività, delle sue difficoltà.
Ma non basta.
Osservando il dipinto con più attenzione prestiamo cura ai ciclisti.
A condurre il gruppo un bianco, appena più dietro la pelle si scurisce, a chiudere un ciclista chiaramente afro americano.
Siamo agli inizi del ‘900, tutto il mondo è attraversato da tensioni nazionalistiche e razziali, le difficoltà per chi non è di pelle bianca sono enormi.
Non hanno accesso a istruzione, servizi, se ci sono la qualità è molto inferiore rispetto a quelle per i bianchi, non godono di diritti e quei pochi sono limitati.
Vista così l’opera di Feininger supera il dato sportivo, il gesto atletico per divenire un messaggio dirompente, rivoluzionario, contro il razzismo.
Contro le difficoltà di chi si trova a subire, di chi si vede negati diritti e possibilità solo per un diverso colore della pelle.
Il ciclista è lì, in ultima posizione. La sua fatica è la stessa degli altri, persino superiore l’impegno: ma Feininger sa che non basterà a battere l’uomo bianco perché la sua strada avrà sempre difficoltà che gli altri non incontreranno mai. E’ condannato a restare dietro. E chissà se abbia mai immaginato che dopo oltre un secolo dalla sua opera poco sarebbe cambiato.
Per oggi mi fermo qui, quel parte prima del titolo vi ha fatto intuire che ho scelto la divisione. Non voglio trasformare questi articoli in ciò che non hanno pretesa di essere né renderli enciclopedici. Come vi ho raccontato, questo progetto editoriale nasce da una idea ma senza una scaletta precisa, ogni articolo è per me un nuovo viaggio su sentieri che scopro a ogni passo. Gli anni fino allo scoppio della Grande Guerra furono assai prolifici, la bicicletta assumerà tutt’altra valenza col futurismo, la sua sempre maggiore diffusione e popolarità la trasformeranno da oggetto per classi ricche a scelta necessaria per quelle povere e tutto questo non sfuggirà agli artisti.
Ne parleremo la prossima volta.
Buone pedalate
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Bici e Arte, articoli pubblicati
Sono Fabio Sergio, giornalista, avvocato e autore.
Vivo e lavoro a Napoli e ho dato vita a questo blog per condividere la passione per la bici e la sua meccanica, senza dogmi e pregiudizi: solo la ricerca delle felicità sui pedali. Tutti i contenuti del sito sono gratuiti ma un tuo aiuto è importante e varrebbe doppio: per l’offerta in sé e come segno di apprezzamento per quanto hai trovato qui. Puoi cliccare qui. E se l’articolo che stai leggendo ti piace, condividilo sui tuoi social usando i pulsanti in basso. E’ facile e aiuti il blog a crescere.