Cosa serve per incentivare la bici?
In questi ultimi giorni ho affrontato la questione della mobilità ciclistica sotto due aspetti: ho preso alcuni dati dallo studio commissionato da Shimano State of Nation 2022 e i risultati del 19esimo rapporto Audimob-Stili e comportamenti di mobilità degli italiani, curato da Isfort, l’Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti.
Questi i link agli articoli per chi se li fosse persi.
Emergono da un lato una certa voglia di mobilità sostenibile a livello europeo, purché supportata; dall’altro il ritorno preponderante all’auto privata in Italia dopo il periodo pandemico, nel quale rischiamo seriamente di rientrare ma non è questo il luogo per parlarne.
Che l’automobile da noi sia feticcio è un dato di fatto. Anche altrove, sicuramente, ma nel Belpaese guai a chi tocca auto e calcio.
Non demonizzo l’automobile, la possiedo pure io e sarei in difficoltà senza. Ho una percorrenza annua bassissima, non supero i 5000km. Ma quelle rare volte che mi serve, mi serve e basta.
Insomma, il male assoluto non è l’auto bensì l’uso che se ne fa.
Il nocciolo della questione alla fine si riduce sempre nel convincere chi usa l’auto quando non strettamente necessaria a lasciarla ferma e rivolgersi ad una alternativa a pedali. Anche assistiti se serve.
Del resto le e-bike sono viste dai cittadini europei proprio come naturalmente destinate al commuting.
Convincere noi, che in bici ci andiamo tutti i giorni per passione e utilità, che pedaliamo per svago e per andare a fare la spesa, non serve. Lo facciamo già.
Eppure ci sono dei punti in comune, soluzioni che renderebbero più semplice la vita a noi, ciclisti già praticanti, e potrebbero incentivare l’uso della bici tra i non pedalatori.
Tra i tanti dati dello studio commissionato da Shimano, ne sono emersi alcuni che non mi aspettavo; o per essere più precisi, non mi aspettavo in posizioni così basse nella classifica.
Pochi gli intervistati che hanno posto l’accento sulla mancanza di ricoveri sicuri, di intermodalità manco a parlarne, la richiesta di infrastrutture ciclabili, pur venendo da un intervistato su tre, si pone abbastanza dietro rispetto ad altre esigenze, economiche e di benessere fisico.
Comprensibile da un lato, lo State of Nation 2022 di Shimano volge lo sguardo su molte Nazioni europee, e tra queste tante hanno già una ottima rete ciclabile e moderne infrastrutture per i ricoveri in sicurezza, quindi viene meno l’esigenza di porle tra le priorità.
In Italia la situazione è ben diversa, soprattutto per un grave deficit culturale.
Un deficit che ha colpito tutti i popoli in periodi diversi della storia, che vediamo ancora oggi in aree del mondo: la bici è identificata come mezzo di trasporto povero.
Mi cito: “Fino all’immediato dopoguerra la bicicletta ha rappresentato il mezzo di trasporto per eccellenza.
Poi il boom economico, il crescente benessere, la maggiore disponibilità economica ne hanno decretato il lento declino in favore dei veicoli a motore, prima a due poi a quattro ruote.
Lo stesso fenomeno che sta verificandosi nelle aree più disagiate del pianeta, dove spostarsi pedalando è ancora l’unico modo per coprire in tempi ragionevoli lunghe distanze, ma che pian piano, con il miglioramento delle condizioni economiche, è soppiantato da auto e motociclette.
Nei Paesi più industrializzati stiamo assistendo al fenomeno inverso. La bici che nelle vendite supera il mercato automobilistico, una nuova coscienza ecologica che spinge verso veicoli a nullo impatto ambientale, la voglia di uno stile di vita più salutare alcuni dei motivi del nuovo successo della bici. Ma più di tutto, alla base c’è la riscoperta del vero elisir di lunga vita della bicicletta: pedalare ci rende felici“.
Lo scrissi nelle prime pagine di un libricino che mi commissionò Mondadori, sembra passata una vita e forse lo è.
Perché nel frattempo quella spinta nei Paesi industrializzati sembra stia ridimensionando, non solo sul piano delle vendite (che si difendono ancora bene però poi le bici restano ferme) ma soprattutto in quello ideologico, passatemi il termine.
L’uso della bici come mezzo di trasporto sostenibile, quindi lasciamo fuori gli appassionati, torna a essere considerato povero, stravaganza da ecologisti intransigenti o poveri disgraziati. O tutte e due, come rimarcano spesso esponenti delle attuali forze di governo.
Forze che sono state elette dalla maggioranza di chi si è recato alle urne, quindi seppur non rappresentative della reale maggioranza del Paese, sono comunque indicative di un forte sentire in ampia fetta della popolazione.
Su questo possiamo farci poco, sradicare convinzioni e pregiudizi va oltre la nostra portata.
C’è però altra fetta di popolazione che vede di buon occhio l’uso della bici come alternativa all’automobile ma è scoraggiata da difficoltà apparenti e reali.
Fatica, sudore, abbigliamento ecc possono essere risolti facilmente. Per esempio l’e-bike, sulla quale sapete non ho alcun pregiudizio o veto, la facilità di trovare accessori e abbigliamento adatto a pedalare tutti i giorni (tecnico ma casual per capirci) permettono un soddisfacente uso nel tragitto casa lavoro.
Ma una volta arrivati a destinazione, la bici dove la metto?
E se abito lontano e voglio sfruttare l’intermodalità, ho treni o autobus che mi permettono il trasporto della bici e stazioni dove posso lasciare l’auto senza che mi costi un occhio?
Quando nei vari articoli parlo di ciclabili e infrastrutture ciclistiche, distinguo proprio perché con queste ultime intendo le risposte alle domande appena formulate.
Certo, la direttiva UE che permette agli Stati membri di ridurre l’IVA su bici e manutenzione al 5%, dando tempo ai singoli Governi di recepirla entro il 31 dicembre 2024, dubito sarà sfruttata in Italia.
Però non basta rendere conveniente l’acquisto della bici: dobbiamo renderla facile.
Io invece fatico a comprendere cosa spinge molti a passare ore imbottigliati nel traffico e poi a cercare parcheggio su tragitti brevi, fattibili in bici se non addirittura a piedi.
Eppure se provo a spiegargli che in bici farebbero prima, che potrebbero tagliare per quella ZTL, passare dalla pedonale (se permette anche accesso alle bici, ovviamente) e in 10 minuti sarebbero a destinazione; contro le due ore richieste dal lungo giro in auto, nonché tempo perso a cercare parcheggio pubblico per finire poi salassati da quello privato, mi sento rispondere che la bici non sanno dove metterla, che si sporcano il vestito, che se bucano non sanno come fare e così via.
A parte che esistono i paracorona e una foratura non è difficile da sistemare, rubano pure le auto.
E’ anche vero che lasciare una bici incustodita, per le ore della giornata trascorse in ufficio, è molto rischioso. Minimo non trovi le ruote o la sella, spesso non trovi più tutta la bici.
Che nel caso delle e-bike è pure una bella spesa.
Quelli che abitano fuori città mi rispondono che lasciare l’auto in stazione è spesso impossibile, mancano parcheggi gratuiti e quelli privati costano tanto, quindi nella somma tra spese di trasporto e parcheggio l’auto continua a essere più economica. Almeno finché il carburante non è schizzato alle stelle.
E aggiungono che troppo spesso sono soggetti all’arbitrio del capotreno, che decide in base all’affollamento se far salire o no la bici. Che è quasi sempre no visto come sono stipati i treni locali.
Ci hanno provato col bike sharing, per accorgersi poi che il tragitto andata/ritorno tra la stazione di arrivo e l’ufficio gli è costato oltre dieci euro per venti minuti scarsi a tratta. Prezzi attuali nella mia città, verificati di persona: 1 euro allo sblocco, 25 centesimi al minuto. Ponendo 20 minuti casa/lavoro o stazione/lavoro e 2 sblocchi sono 12 euro. Pur con la benzina a due euro al litro, è un importo che pone queste bici in condivisione fuori dalla portata del pendolare.
Ecco allora dove intervenire: parcheggi sicuri per le bici, parcheggi economici e/o gratuiti per l’intermodalità, accesso garantito e non aleatorio per le bici su treni e metropolitane, un bike sharing realmente vantaggioso o almeno in pari con le equivalenti spese di carburante.
Il bike sharing, purché competitivo sul piano economico, risolve da solo molti problemi: dal parcheggio alla manutenzione.
Molte aziende stanno offrendo ricoveri idonei per le bici dei dipendenti, ma sono dislocate fuori dai grandi centri urbani.
Per gli uffici delle “city” c’è nulla e nulla si prospetta all’orizzonte nei piani delle città metropolitane, dove il problema è reale.
Le stazioni periferiche sono nella maggioranza dei casi le stesse sorte tra le due guerre, spazio per ricavare parcheggi da offrire per la intermodalità manca e servirebbe crearne nuove e meglio dislocate.
Si tratta, per ogni possibile soluzione, di programmare investimenti elevati, senza dubbio.
Investimenti che molte Nazioni europee hanno fatto o programmato, grazie anche ai fondi dei vari PNNR nazionali.
Qui da noi assistiamo al definanziamento di quanto già stanziato (93 milioni di euro sottratti alle infrastrutture ciclistiche in favore di non ben identificati festival di promozione), obiettivi di mobilità green identificati in nuove autostrade e porti, non mi sembra che la via sia quella che auspico.
Milano ha appena approvato una delibera che prevede il limite di 30km/h (con possibili deroghe su strade da valutare) a partire dal prossimo anno, limite già in vigore in tante città europee, senza dimenticare che da tempo Bologna si sta attrezzando per divenire “Zona 30”, che subito sono partite le bordate.
Scelta demagogica, inutile, controproducente le osservazioni più gentili.
Però affermarlo è segno di profonda ignoranza del fenomeno, visto che gli incidenti in ambito urbano dovuti alla velocità provocano il 43,9% dei morti e il 69,7% dei feriti, a livello nazionale.
Fino al classico “la gente vuole lavorare”, a indicare per l’ennesima volta che chi si sposta in bici è uno sfaccendato e passare ore nel traffico è “lavorare”. Del resto questa manfrina la ripete sempre lo stesso soggetto che mai ha lavorato in vita sua. Lo stesso che ha annullato i 93 milioni di euro di cui sopra…
Sono stanco della solita storia che non siamo l’Olanda o la Germania, che da anni svolgono politiche attive per la mobilità ciclistica.
Olanda e Germania non sono nate in bici: ci sono diventate.
Possiamo diventarlo pure noi o dobbiamo scontare i nostri peccati in eterno?
Buone pedalate
Sono Fabio Sergio, giornalista, avvocato e autore.
Vivo e lavoro a Napoli e ho dato vita a questo blog per condividere la passione per la bici e la sua meccanica, senza dogmi e pregiudizi: solo la ricerca delle felicità sui pedali. Tutti i contenuti del sito sono gratuiti ma un tuo aiuto è importante e varrebbe doppio: per l’offerta in sé e come segno di apprezzamento per quanto hai trovato qui. Puoi cliccare qui. E se l’articolo che stai leggendo ti piace, condividilo sui tuoi social usando i pulsanti in basso. E’ facile e aiuti il blog a crescere.
Sono un lavoratore che si reca a scuola ogni mattina. A parte il pericolo costante nel traffico automobilistico, una volta giunto a destinazione non trovo nell’Istituto che mi ospita nulla che favorisce i miei spostamenti (ricovero per la bici, un piccolo luogo per cambiarmi, ecc.) I miei colleghi insegnanti sono tra i più motorizzati al mondo (sarebbe interessante uno studio ma non credo verrei smentito). La scuola dovrebbe esser la sede, anche, delle buone pratiche. Da questo punto di vista tutto falso. Vedi anche il totale caos automobilistico in entrata e uscita ad inizio e fine mattinata.