Chi corre cosa?

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Come già sapete, l’UCI ha diramato il calendario delle prossime gare di ciclismo su strada.

Questo blog non è un magazine, quindi non ho necessità di stare sulla notizia ma posso prendermi il giusto tempo per le riflessioni.

E l’unica che mi viene è che per accontentare molti si è scontentato tutti. Tranne gli organizzatori del Tour.

La nostra gara più importante, il Giro, si correrà dal 3 al 25 ottobre.

Ossia nello stesso periodo in cui avremo le classiche del Nord, la Liegi-Bastone-Liegi il 4 ottobre, la Gand-Wevelgem il 14, il Fiandre il 18 e la Parigi-Roubaix il 25 ottobre. 

La Vuelta partirà il 20 ottobre, ossia a Giro in pieno svolgimento.

La Tirreno Adriatico si correrà dall’8 al 14 settembre, con il Tour che prende l’avvio il 29 agosto per chiudersi il 20 settembre. Quindi ancora una volta penalizzata una corsa nazionale.

Chi volesse, a questo link può consultare il nuovo calendario delle corse su strada.

Vero che il ciclismo su strada ruota intorno al Tour, è la gara che fattura di più, è corretto dargli spazio.

Vero però che l’impegno per team, case, sponsor e tutto ciò che muove il carrozzone resta uguale, che si corra a ranghi ridotti o meno.

A fronte di una spesa di partecipazione tutto sommato uguale, il ritorno sarà decisamente più basso. 

Perché ogni squadra dovrà decidere a cosa partecipare e con chi. E chi vorrà dividersi, mandando atleti sia all’una che all’altra, vedrà salire i costi in modo vertiginoso.

E’ ovvio che lo stesso team (inteso come composizione) non potrà farsi Giro e Vuelta; atleti che sono fortissimi nelle classiche e danno un contributo spesso determinante alla squadra nelle corse a tappe dovranno essere in qualche modo sacrificati.

E non sfuggono le meno di due settimane che passano dalla fine del Tour all’inizio del Giro. Troppi pochi giorni perché un atleta si impegni in entrambe le gare, con inevitabile scelta e conseguente impoverimento della griglia di partecipanti. 

E poi c’è la questione, per nulla secondaria, dell’allenamento.

Noi che siamo plinti, risentiamo di questo stop forzato in modo notevole.

Figuriamoci un atleta professionista, uno che o si allena ogni giorno oppure hai voglia a riprendere lo stato di forma.

A seconda del Paese di residenza al momento del blocco, c’è chi ha potuto proseguire l’allenamento e chi no.

E i rulli non sono la strada, lo avete capito in questi mesi di ampio uso.

Il pubblico? Che regole ci saranno? Settembre, ottobre, sembrano lontani.

Non lo sono; e sfido chiunque a sostenere che il 5 marzo immaginava l’incubo che stiamo vivendo.

Tutti gli scienziati a ripetere che l’autunno sarà il periodo critico, avremo i corridori sfilare per strade deserte?

A che pro? La bellezza del ciclismo è tutta nella cornice di pubblico, nella passione che si respira nell’aria.

E sempre tenendo d’occhio il rapporto costi/benefici, una gara senza pubblico dal vivo ha certamente un ritorno assai inferiore. Perché il nostro non è il tifo calcistico.

Noi siamo ciclisti, ci emozioniamo a vedere il gruppo sfilare veloce; ma dura pochi secondi.

Invece dura ore il nostro passeggiare sin dalle prime ore del mattino per gli stand, toccare con mano le novità, parlare con le aziende.

E i comuni attraversati? Ognuno paga un tot all’organizzazione per avere partenza o arrivo sul proprio territorio. Investendo anche cifre importanti per adeguare le strade alle esigenze della corsa.

Tutti denari che rientrano, quasi sempre con importante attivo, grazie all’afflusso di pubblico.

Un pubblico che con ogni probabilità sarà invece solo televisivo, ma non siamo il calcio, i diritti televisivi non potranno coprire le spese.

In questo maldestro tentativo dell’UCI di far contenti quanti più è possibile si evidenziano due elementi: il primo è che i vertici del ciclismo nemmeno stavolta brillano per acume; il secondo che ogni gara a tappa non sia il Tour è figlia di un dio minore.

Sarebbe stato assai più saggio cancellare alcune gare di un giorno, alcune classiche e provare a convogliare tutte le energie in una unica gara a tappe. Un percorso che avrebbe potuto facilmente coprire le tre nazioni che hanno le corse più seguite, un anello capace di toccare Italia, Francia, Spagna.

Da Milano a Barcellona, giusto per farci un quadro delle distanze, sono circa 1000 km. 

Non sarebbe una gara a tappe nazionale ma (semi)europea.

Sarebbe di sicuro un segnale importante, anche sul piano comunicativo, di unione in un momento in cui l’Europa viaggia troppo divisa.

Sarebbe bello, ma se da tempo non seguo più le gare è perché il nostro amato sport ha dimenticato le ragioni del suo fascino.

Buone pedalate, a chi è permesso

COMMENTS

  • <cite class="fn">Enzo</cite>

    Come dicevano i Latini: Frans de mèrd !

  • <cite class="fn">giovanniramberti</cite>

    Purtroppo, quando il denaro investe il “fare”, sportivo o meno, è l’unico riferimento ammissibile per chi organizza, tutto il resto, passione e amore per lo sport, conta nulla.

  • <cite class="fn">fabio</cite>

    Premesso che preferisco farmi un’uscita, piuttosto che guardare una tappa in tv (tradotto: per me potevano anche farsi un anno sabbatico) non si può che concordare con quanti scrivi.

  • <cite class="fn">Stefano Storoni</cite>

    Adesso ci mancava anche la Colnago venduta agli arabi, faremo il Giro d’Italia con partenza da Abu Dhabi

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Stefano, messa così non è corretta. Il fondo che ha rilevato la maggior parte delle quote (lo stesso propietario del Team UAE) non intende certo trasformare Conago. Oltre a una quota ancora in possesso al patron, la sua ingerenza nella vita tecnica dell’azienda resta intatta. Ora chi metta i soldi per fare belle bici conta nulla, l’importante è non privarci della competenza di Ernesto.
      Senza dimenticare che Bianchi è svedese, Pianarello francese e così via e io, ai tempi delle relative acquisizioni, non trovai lo stesso allarme giornalistico di questi giorni. Forse causato da un modo errato di riportare le notizie, un bel titolo “Colnago diventa araba” ne attira di click…

      Fabio

      • <cite class="fn">Stefano Storoni</cite>

        Il titolo attirerà anche click ma è corretto: Ernesto Colnago ha quasi 90 anni, e comunque nelle aziende comanda chi ha la maggioranza, il fondo Chimera (che non è poca cosa, è un colosso da quasi 30 miliardi di dollari di asset, per loro l’acquisto di Colnago è come per noi comprare un nuovo paio di copertoni) farà semplicemente quello che gli pare. Non mi scandalizza certo la vendita di aziende italiane agli stranieri, i fondi di investimento sovranazionali possiedono moltissime aziende nate in Italia, a cominciare dalle banche, e poi in un simile momento di conclamata crisi economica qualsiasi apporto di denaro dall’estero non può che fare comodo. Quello che mi dispiace è che imprenditori che hanno fatto la storia di un settore e creato marchi famosi nel mondo non trovino il modo di dare continuità manageriale ad aziende che hanno la propria forza nella qualità che viene da una gestione semi artigianale, dalle mani e dalle idee di quelli che ci lavorano, e che gestite da un Reit non possono che snaturarsi. Dobbiamo capire che fondi di questo tipo usano solo logiche strettamente finanziarie, il loro target di mercato è dare un dividendo agli investitori, che non sono minimamente interessati a come questi dividendi vengono ottenuti.
        In parole povere, se riterranno conveniente importare biciclette da quattro soldi, marchiarle Colnago e venderle nei supermercati lo faranno, ricaveranno tutto il possibile dal marchio e poi lo abbandoneranno (altri marchi storici di biciclette italiane hanno fatto questa fine).
        La situazione di Pinarello è completamente diversa in quanto la scelta del “partner” è stata molto più oculata. Lvmh è un gruppo industriale, non finanziario, cioè una multinazionale specializzata in brand di lusso, hanno una attività commerciale e una clientela tipo di elevatissimo standing che è il loro vero patrimonio, un fondo di investimento è tutta un’altra cosa.
        Insomma, chi mette i soldi nelle aziende conta, eccome.

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