E’ gravel o non è gravel?
Gravel, disciplina novella Re Mida trasforma in oro tutto ciò che luccica.
Gravel, un modo di vivere la bici che o si ama alla follia o si detesta bollandolo puro marketing.
Gravel, un modo nuovo di andare in bici che ha radici lontane.
Gravel, inclassificabile per sua stessa natura.
E allora io qui che faccio? Mi inoltro su un terreno minato perché grande è la confusione sotto il cielo del gravel e aggiungo il mio personale mattoncino alla costruzione del suo castello.
Con una premessa.
Mai seguito le mode
Per molti il gravel è una moda scoppiata negli ultimi tempi, una scoperta se vogliamo, comunque qualcosa di recente e tutte le testate se ne occupano perché tira.
Non è il mio caso.
Non millanto di aver inventato il gravel, e fra poco capirete che è così, ma sono moltissimi anni che “pedalo gravel”.
Quando il gravel, le bici gravel, l’abbigliamento gravel, gli eventi gravel semplicemente non esistevano. Non esisteva manco la parola gravel, declinata in senso ciclistico.
I lettori della prima ora ricorderanno quando anni fa, col gravel ancora da immaginare, pubblicai un serie di articoli tecnici su come trasformare bici da trekking o mtb in quelle che oggi potremmo definire gravel (per uso, non per tecnologia), perché era quello che facevo da quando ero ragazzino.
Sempre amato la piega da corsa e la bici sportiva, mai stato uno troppo settoriale, uno che divide e cataloga le discipline, sempre avuto la propensione alle zingarate sui pedali.
Ecco allora che nei primi anni 90 del secolo scorso, che scritto così mi fa sembrare ancora più matusa di quanto sia, provavo a ricavare da telai di ciclocross, da trekking o dalle prime mtb qualcosa che potesse portarmi indifferentemente su strada e fuori, senza ansia da prestazione, senza voler fare il tempo ma solo passarlo pedalando felice ovunque mi venisse voglia di andare.
Creavo bici gravel senza saperlo? No, mi limitavo a rendere più adatte a me bici per praticare un ciclismo che è sempre esistito.
Sempre i lettori più fedeli ricorderanno il mio amore per le vecchie bici francesi da rando e turismo. Bici che tutt’ora amo perché erano bici (e sono, le uso a tutt’oggi) capaci di portarti ovunque. Geometrie comode, passaggio gomme ampio grazie ai cantiliver, trasmissioni agili (spesso con la tripla), possibilità di caricare il bagaglio: vi sembra di trovare qualche similitudine col gravel attuale?
Certo, adesso le bici hanno prestazioni e componenti che alzano il livello, le geometrie sono ottimizzate e ancora con ampio margine di sviluppo, con la mia Peugeot non avrei potuto fare alla stessa velocità e con la stessa sicurezza quello che ho fatto in questi giorni con la Wilier Adlar sui percorsi del Grinduro, ma attenzione: non avrei potuto farlo con la stessa velocità e sicurezza, non ho detto che non avrei potuto farlo. Perché l’ho fatto, più piano e con più attenzione ma l’ho fatto in questi anni.
Andiamo ancora più indietro, spostiamoci a quando ero bambino e scorrazzavo in Graziella, in attesa di ricevere la mia prima bici da corsa.
Passavo parte dell’estate in campagna, una casetta in cima a una collina in Irpinia.
Partenza dall’ampia cucina che dava direttamente sulla porta di ingresso, di slancio il salto dei tre scalini e poi a rotta di collo giù per collina.
Oggi immagino lo chiameremo Downhill, io all’epoca lo chiamavo “divertirmi”.
Come chiamavo divertirmi farmi a tutta e con l’entusiasmo che solo un bambino può avere i sentieri, le strade bianche, le mulattiere che circondavano quello che io, pupetto di città, vedevo come un enorme parco giochi.
Erano giri gravel? Beh si, anche se io non avevo una definizione, troppo preoccupato a inventare scuse per evitarmi la punizione di mia madre, visto che uscivo al mattino e tornavo a buio fatto. Una volta trovai pure la macchina dei Carabinieri davanti casa, allertati da mia madre. Le presi di brutto e niente più bici per tutta l’estate. Però l’anno dopo mi regalò la Bianchi da corsa, sempre stato il suo preferito…
Vado ancora più indietro nel tempo, stavolta prendo a prestito la letteratura così non vi faccio mancare il mio snobismo.
Nel romanzo “La ragazza perduta” di D.H. Lawrence c’è un passaggio in cui il futuro marito della protagonista Alvina sceglie di rientrare in bici piuttosto che in treno. Una trentina di miglia, forse più, nei paesaggi minerari della Scozia di inizio ‘900.
Sta facendo gravel? Oggi diremmo di si, oltre un secolo fa stava semplicemente andando in bici.
Ma il gravel è antico o moderno?
Ed ecco allora dove piano piano vi sto portando: gravel è semplicemente andare in bici come si è fatto da quando la bici è nata.
Ma allora a cosa serve tutta questa specializzazione? Beh, dedicatemi ancora qualche minuto.
Chi ha seguito il blog in questi giorni sa che ho trascorso la settimana scorsa nella splendida cornice di Punta Ala, dove Shimano e Wilier hanno presentato alla stampa il nuovo gruppo GRX 12 e la nuova Adlar che amplia la gamma gravel dell’azienda vicentina.
E al termine della due giorni dedicata alla stampa è partito l’evento gravel Grinduro, che ci ha permesso di testare ancora più a fondo trasmissione e bici. E noi stessi, ma questo ve lo racconterò più avanti, anzi, ve lo racconterà Antonello che si è fatto il percorso da 100km e io non voglio rubargli la scena.
Dopo le conferenze di rito, anche questo qui non racconto, arriveranno gli articoli dedicati sia alla trasmissione che alla bici (perdonate, ma devo mettere ordine nella valanga di emozioni che mi ha travolto), tutti in sella a pedalare lungo un percorso provato e selezionato da chi ha organizzato l’evento.
Un tracciato tecnico, difficile, a tutti sconosciuto da percorrere su bici mai provate e non settate alla perfezione nell’assetto in sella (normale in questi casi e nessuno, tanto meno io, se ne lamenta), circondato dal meglio della stampa nazionale e internazionale e dei protagonisti di questo mondo, a me non è rimasto che seguire l’unica linea di condotta plausibile: in coda e muto, sia perché sembrare intelligente è per il 90% sapere quando tacere, sia perché avevo sempre il timore mi scoprissero e si chiedessero che ci facevo io lì in mezzo.
L’uso di abbigliamento per quasi tutti uguale mi ha favorito nella mimetizzazione, ho identificato un paio di pedalatori più esperti di offroad, mi sono messo a ruota, nel senso che vedevo dove mettevano le ruote loro e ci andavo pure io perché, onestamente, io manco sapevo che fare.
E tra una scodata, una radice, un masso, un albero schivato all’ultimo, una sete boia, provavo a catturare i commenti dei colleghi.
Non su bici e trasmissione ma sul percorso, perché ognuno aveva la sua da dire, ognuno lo classificava gravel o no a seconda dei propri gusti, esperienze, attitudini.
Ora immaginate il contesto che non è quello di un semplice pedalatore della domenica come me ma di gente che fa questo di mestiere, professionisti del settore con anni di esperienza e potete capire il mio stupore nel ritrovarmi nel centro di una classica discussione da bar.
Che non definisco così in senso spregiativo, anzi: proprio la chiacchierata che noi facciamo durante la sosta, birra in mano e gambe stese sotto il tavolo.
Io sempre muto, le orecchie “appizzate”, come diciamo noi a Napoli, a catturare commenti, impressioni, idee.
E poi scusate ma mettetevi nei miei panni: pedali affianco a Omar de Felice, che fai? Ascolti in religioso silenzio oppure fai lo sborone a dire la tua? Persino io, che a presunzione non scherzo, ho capito che da questa esperienza avevo solo da imparare.
Così ho capito molte cose, oltre a capire che capisco poco e fa niente se si sta intrecciando il periodo.
Ho capito che nemmeno noi (stavolta scusate ma devo includermi) che facciamo questo da anni possiamo dare una definizione univoca di gravel.
Ho capito, anzi, ho avuto conferma, che il gravel non è definibile, non è catalogabile, non è possibile irreggimentarlo in solide caselle.
Si, lo facciamo per comodità, io l’ho sempre chiamato anche su queste pagine “zingarate sui pedali” (ricordate Amici miei?) ma immaginate se titolassi “GRX, il gruppo per le zingarate” i pernacchi che mi prenderei.
Che poi è esattamente quello per cui è nato ma ci siamo capiti.
Il bello del gravel, e continuo a chiamarlo così ma ormai avete compreso che per me significa l’essenza stessa dell’andare in bici da quando la bici l’hanno inventata, è proprio che ognuno può viverlo come crede.
L’ho toccato con mano nel MediaCamp Shimano e Wilier, l’ho vissuto con il Grinduro.
C’era quello in completino attillato a scaldarsi sui rulli e quello in t-shirt a togliersi la schiuma della birra dai baffi; c”era l’ascetico sottile come un giunco abbigliato da hipster in ogni dettaglio e l’orsetto peloso che abbracciava chiunque felice di esserci; c’era la ragazza intenta a farsi la treccia specchiandosi e la donna che è rimasta con l’abbigliamento tecnico indossato durante il percorso pure quando si è fermata a cena per non perdersi nemmeno un minuto del Grinduro; c’era chi salutava il traguardo su una ruota e chi con un romantico bacio.
Nessuno ha guardato qualcuno dall’alto in basso, nessuno ha giudicato se la bici fosse adatta, le gomme quelle giuste, l’abbigliamento consono, la doppia o il mono e via così secondo invece il classico (purtroppo) repertorio di sciocchezze che prolifera tra i gruppi social.
Solo uno se ne andato stizzito quando ha visto scendere la sua posizione in classifica ma ci sta che in un evento di questa portata becchi quello più convinto.
A che serve tutta questa roba gravel?
Ma allora, e mi avvio alla chiusura di questa lunga chiacchierata, se questo è gravel, se il percorso alla fine è secondario, basta ci siano strada e fuoristrada, se dici (io dico) che tutto questo lo facevo già da ragazzino con la Graziella, questo bel mondo fatto di bici specialistiche., abbigliamento dedicato, accessori, eventi a che serve?
Serve a goderselo meglio.
Avessi avuto 20 anni fa a disposizione quello che gira adesso non avrei mai passato le notti ad armeggiare per far funzionare componenti tra loro incompatibili, cercare telai da trasformare, inventarmi soluzioni creative (che è modo elegante per dire boiate) nel mio creare gravel ante litteram.
Però è anche vero che è stata per anni formidabile palestra, ogni bici per me o qualche amico una avventura meccanica.
Una avventura sempre diversa perché ognuno di noi è diverso.
La bici totale non esiste, la bici perfetta si. Ci scrissi un libro, anni fa.
Possono sembrare la stessa cosa, non lo sono. La bici perfetta è quella pensata, creata, cucita esattamente sulle nostre esigenze: sulla nostra passione.
E qui il gravel è re.
A lui lo scettro proprio perché permette a chiunque di trovare la bici perfetta per il proprio modo di vivere il ciclismo. Al di fuori delle attività più specialistiche, è ovvio.
Una caratteristica del marketing è saper creare la necessità, far credere a una persona che quel bene o servizio gli è indispensabile. Può essere, non è mio campo, ne capisco nulla quindi non so se sia vero.
Una caratteristica delle aziende lungimiranti è proporre più scelte, senza inseguire mode del momento o imporre una sola direzione.
Messa così la discussione su cosa possa definirsi gravel e cosa no passa in secondo piano, l’unico punto fermo resta la libertà di vivere la propria zingarata sui pedali come più ci piace.
Quindi ben vengano bici più o meno votate alla guida sportiva, all’off road più duro, al turismo avventuroso, alla scampagnata domenicale. Con tutto il seguito di accessori, abbigliamento, borse e così via.
La possibilità di scegliere, di pescare dal mazzo la nostra carta vincente è quello che conta. Senza fisse da gruppo social se il monocorona sia obbligatorio o meno, le gomme da 32 o da 50, l’alluminio o il carbonio, il meccanico o l’elettronico e chi più ne ha più ne metta.
Non dobbiamo scegliere perché ce lo dicono altri, scegliamo quello che preferiamo, magari dopo esserci informati su testate più credibili di qualche forum affollato o gruppo social, dove conta fomentare le discussioni per creare traffico e iterazioni.
Non sto citandomi di nascosto, testate serie ce ne sono, vederli al lavoro in questi giorni avrebbe fatto ricredere pure i più scettici convinti siamo tutti prezzolati. Che esistono e sempre esisteranno, però semplicemente non c’erano.
L’esperienza di questi giorni mi ha mostrato per prima cosa la lungimiranza di cui vi ho detto, con la nuova trasmissione GRX 12v che offre un ampio ventaglio di scelte, si chiuderà con la versione Di2, accolgo con piacere la smentita alla mia previsione di una uscita di gamma delle serie 10 e 11v. Impossibile qualcuno non trovi quello che fa al caso suo.
Poi mi ha mostrato il forte impegno delle aziende per proporre quante più alternative è possibile, ho toccato con mano pedalandoci la nuova Wilier Adlar, ho ascoltato con interesse le novità in arrivo, ho studiato con attenzione quello che c’era.
E la cosa più importante: ho visto, vissuto direi, il popolo gravel in tutte le sue sfaccettature incontrando decine di ciclisti provenienti, letteralmente, da tutto il mondo, ognuno con una configurazione della propria bici diversa, diverso l’abbigliamento, soprattutto diverso lo spirito con cui hanno affrontato questa magnifica festa che è stata il Grinduro Italia, e di cui vi parlerò più a fondo nei prossimi giorni.
Ho visto anche una bici montata coi Look stradali ma non ho beccato il ciclista, avrei voluto chiedere.
Anatema! Una gravel non deve montare pedali stradali!
E perché? Perché vogliamo imporre la nostra visione? Chi ha stabilito che quello che piace a me, è adatto a me, piaccia a voi, sia adatto a voi?
Nemmeno io, che non ci scherzo a presunzione, mi sono mai sognato di dirvi come pedalare: provo ad aiutarvi nelle vostre scelte dopo che mi avete raccontato come vi piace andare in bici, che è cosa del tutto diversa dall’incidere nella pietra regole di ortodossia ciclistica.
Alla fine il gravel non è moda e non è nuovo.
E’ un ritorno alle origini dell’andare in bici, liberi, senza mete e preclusioni.
In un mondo che ci vuole sempre più inquadrati in specifiche caselle, chiusi in recinti sempre più angusti, etichettati con definizioni sempre più restrittive, questo ritorno alla vera essenza della pedalata diventa un atto rivoluzionario.
E così non conta più stabilire, provare a stabilire se quel percorso sia gravel o no sulla base delle difficoltà; se quella bici sia più gravel di una altra se ha il monocorona invece della doppia; se le gomme da 32 sono troppo sportive o quella da 45 troppo turistiche.
Ero in sella, salita impegnativa, fondo acciottolato, dopo qualche chilometro immerso nella pineta ne esco fuori e davanti a me si è aperto il blu del mare all’orizzonte, la caletta sotto di me, l’Elba sullo sfondo.
Io fermo, in bici, ammirato: potete chiamarlo gravel o come vi pare, per me è felicità sui pedali.
E tanto mi basta.
Buone pedalate
Sono Fabio Sergio, giornalista, avvocato e autore.
Vivo e lavoro a Napoli e ho dato vita a questo blog per condividere la passione per la bici e la sua meccanica, senza dogmi e pregiudizi: solo la ricerca delle felicità sui pedali. Tutti i contenuti del sito sono gratuiti ma un tuo aiuto è importante e varrebbe doppio: per l’offerta in sé e come segno di apprezzamento per quanto hai trovato qui. Puoi cliccare qui. E se l’articolo che stai leggendo ti piace, condividilo sui tuoi social usando i pulsanti in basso. E’ facile e aiuti il blog a crescere.
Ma Gitana….è gravel?
Ci mettiamo il GRX quando sgranerò tutto?
Bel articolo Fabio
Gitana è la tua bici Lorenzo, pensata e costruita su di te: non esiste niente di meglio…
Comunque sai che potrebbe essere un’idea passare al GRX, quando la facesti non c’era ancora altrimenti l’avremmo considerato.
Fabio
Tanta roba da cambisre pero’
e pensa che io pedalo su una gravel in alluminio, manubrio largo e con molto flare, doppia, pedali flat e… adesso ho montato copertoni da 32 perché faccio tanto asfalto. M l’importante è pedalare e tornare a casa sereni e felici con un gran sorriso stampato in faccia, anche se qualche altro ciclista ti sorpassa dicendo che devi comprare pedali e scarpe con agganci come prima cosa
Esatto Massimo, sono pienamente d’accordo con te. L’importante è tornare a casa col sorriso.
Però mi associo anche io al consiglio dei pedali con attacco, non tanto per le prestazioni ma perché pedalare in posizione corretta, impossibile che il piede sia sempre nel giusto angolo coi flat, significa ridurre moltissimo il rischio di infortuni e infiammazioni, soprattutto nel lungo periodo.
Io ormai alla mia età se uso i flat per più di 15km dopo le ginocchia non le muovo per tre giorni…
Fabio