Sostenibilità: impariamo dagli errori del passato

Tempo di lettura: 6 minuti

Continua il mio viaggio di approfondimento nel mondo della mobilità sostenibile.

Oggi però il discorso sarà più ampio, forse complesso, ma ci sono aspetti che è bene valutare per non incorrere in errori, tecnologici e soprattutto geopolitici, come avvenuto in passato.

Che qualcosa debba cambiare nel nostro stile di vita è indubbio, ormai a negarlo sono rimasti solo terrapiattisti e complottisti vari.

Il pericolo che la transizione ecologica, pur motivata dalle migliori intenzioni, si risolva in disastri peggiori del male che vogliono curare è dubbio che attanaglia chi studia questi fenomeni.

Perché quella che oggi appare la soluzione perfetta, un domani può rivelarsi un serio problema da affrontare.

Prendiamo la plastica, che in realtà comprende diverse tipologie di materiali ma io semplifico. Quando fu introdotta in modo massiccio nella vita quotidiana, dalla bottiglie ai mobili, fu presentata come la migliore soluzione possibile.

A buon mercato, facile da modellare, adatta agli usi più svariati. Addirittura ecologica, mai più alberi tagliati e così via.

Ora paghiamo il prezzo di quell’uso smodato, coi nostri mari letteralmente soffocati dalla plastica.

Questo esempio, che è una semplificazione forse eccessiva ma rende chiaro il punto, ci porta alla prima questione sul tavolo: la tecnologia deve legarsi indissolubilmente alla sostenibilità per scongiurare problemi di cui oggi fatichiamo anche solo a immaginare.

Entro il 2050, almeno sulla carta, dovremmo raggiungere la neutralità climatica, come stabilito dalla UE che ha fatto sue le conclusioni della Conferenza di Parigi del 2015.

Un intento, seppure esista già un piano preciso; che presenta parecchie difficoltà di realizzazione, oltre a incontrare l’ostracismo di Governi nazionali sostenuti da maggioranze diverse da quelle che avevano ratificato gli impegni.

Raggiungere questa neutralità climatica passa anche attraverso le tecnologie pulite, le clean tech ché se lo dico in inglese sembro istruito.

Esistono queste clean tech? In parte, minima. C’è ancora tantissimo da fare e per farlo non bastano i cervelli: servono i soldi.

La Gartner, società di consulenza con sedi sparse in tutto il globo, ha intervistato i CEO delle maggiori aziende tecnologiche e/o che fanno ricorso alle più moderne tecnologie di produzione.

L’87% dei CEO dichiara di attendersi massicci investimenti da qui a due anni (crisi geopolitiche permettendo, N.d.A.) nello sviluppo di tecnologie sostenibili.

Che significa produrre usando il minimo possibile di energia, materie prime, trasporti e così via. Un vero e proprio microcosmo di attività strettamente connesse e al momento non del tutto esplorate.

Nel senso che ancora non sappiamo, ancora non conosciamo in pieno quali e quanti saranno gli aspetti da tener presenti per arrivare a una tecnologia davvero sostenibile. 

Pensiamo, per fare un esempio, alla grande industria con stabilimento fuori città: gli spostamenti quotidiani delle maestranze rientrano o no nella definizione di tecnologia sostenibile? Se la produzione riduce, per dirne una, del 50% le emissioni nocive e per farlo serve uno stabilimento più grande, costruito in area più lontana, l’inquinamento prodotto per andare al lavoro vanifica il risultato?

Uno dirà: che c’entra, una cosa è l’industria, altra i trasporti, competenze diverse.

E qui sta il punto: serve integrazione, serve prendere in considerazione tutti gli aspetti, anche quelli che possono sembrare marginali.

Però non è che uno si mette in poltrona, sorseggia un brandy e riflette sulle implicazioni.

Serve investire in analisi e ricerche e non solo in tecnologie. Solo nel 2022 le clean tech hanno impegnato circa 3000 miliardi di euro a livello globale. Sono tanti soldi e tanti altri ne serviranno.

La Autorità internazionale dell’energia in un suo report afferma che circa la metà della riduzione delle emissioni arriverà da tecnologie che non sono ancora disponibili.

Cioè, al momento attuale, con quello che abbiamo non risolviamo il problema, quello che serve ancora non lo abbiamo inventato.

Può essere un fenomenale volano economico, abbiamo appena letto l’iperbolica cifra mossa l’anno scorso; rischia di essere un pericoloso innesco a nuove crisi geopolitiche.

Perché chi governerà queste tecnologie avrà un ruolo primario nello scacchiere mondiale.

Esagero? 

Allora chiedo a quelli tra noi che hanno superato gli anta: quante volte siamo scesi in piazza a urlare contro le guerre scatenate in nome del petrolio?

E a tutti, anche i più giovani: quanti accordi stipuliamo con Stati antidemocratici ma ricchi di materie prime in nome della realpolitik e per mantenere inalterato il nostro opulento stile di vita?

Obiezione: il tuo discorso non fila, se con le clean tech abbandoniamo i combustibili fossili, il problema geopolitico si spegne da se.

No, si sposta su altri fronti se non valutiamo tutte le implicazioni.

Sul piano globale delle tecnologie pulite la Cina corre spedita, gli USA inseguono, l’Europa è molto indietro.

Zavorrata dal problema delle materie prime: per le terre rare, vitali nella produzione di tecnologie chiave per l’energia eolica e le batterie, ad esempio, la UE dipende al 98% da Pechino.

Questo pone la Cina in posizione di forza e al tempo stesso apre nuovi scenari per sfruttare i giacimenti di terre rare.

Tanto da indurre l’unione Europea a varare, il primo febbraio di quest’anno, il Green Deal Industrial Plan, che punta a trasformare il Vecchio Continente nella patria delle tecnologie pulite. Un pacchetto molto articolato costituito da un mix tra un allentamento delle regole sugli aiuti di Stato e azioni per sviluppare una catena di fornitura europea delle materie prime critiche entro il 2030. Nel medio termine l’obiettivo è arrivare a un Fondo sovrano europeo.

Il dubbio allora diventa: clean tech d’accordo, ma se poi sostituiamo le guerre per il petrolio con quelle per le terre rare, allora dalla storia abbiamo imparato nulla?

E senza essere così catastrofici: guerre guerreggiate no, ma le condizioni di vita nelle miniere? Perché sostenibilità non è solo zero emissioni: è anche qualità della vita.

Ora, se siete arrivati fino a questo punto, vi starete chiedendo che c’entra ‘stà roba in un blog scemo di biciclettine.

C’entra, perché le nostre bici sono piene di tecnologie e materie prime ricavate spesso in modo non sostenibile; e perché le e-bike, quindi dotate di batterie, sono un punto fondamentale nei piani UE per la sostenibilità in senso ampio.

La UE parla di mobilità elettrica in realtà, e il problema riguarda più le auto che le bici, non fosse altro per l’assoluta sproporzione nelle quantità di materie prime necessarie a produrre le batterie per muovere le prime rispetto alle piccole batterie delle seconde. 

E questo ci porta al secondo punto, ossia proprio la situazione europea sul fronte delle terre rare.

Perché una cosa abbiamo imparato dalla storia recente, dalla pandemia alla crisi nell’est Europa: essere troppo dipendenti da un singolo Stato per gli approvvigionamenti ci espone a rischi e ricatti. Sembra passata una vita, era solo tre anni fa che non si trovava una mascherina che fosse una perché qui non le produceva più nessuno, tutte made in China. E lo stesso possiamo dire oggi col gas.

Stabilito che a detta di tutti gli scienziati queste benedette terre rare servono per le tecnologie sostenibili, tutte e non solo le e-bike, l’Europa sta messa malaccio.

Prima sciolgo un comune equivoco: le chiamiamo terre rare ma rare non sono, si trovano dappertutto.

Però il procedimento estrattivo è fortemente nocivo per l’ambiente: per cui i maggiori produttori sono Paesi con bassi standard ambientali.

Sciolto l’equivoco arriva l’ossimoro: ma se per estrarle distruggiamo l’ambiente, non è che c’è qualcosa di sbagliato in queste clean tech che ne fanno ampio uso?

In effetti si, ma ci arriviamo dopo, perché se il dubbio è venuto persino a uno scribacchino come me, per fortuna qualche testa pensante sta provando a correre ai ripari.

Torniamo alle terre rare.

Se prendiamo in conto l’estrazione, la raffinazione e la produzione di terre rare nonché quella dei magneti permanenti (di fatto i quattro passaggi fondamentali nella mobilità elettrica e non solo) e guardiamo alle proporzioni tra Cina e UE, scopriamo che:

la Cina estrae il 63% contro il 10% della UE

la Cina raffina l’84,2% contro il 2% della UE

la Cina produce il 90% contro l’1% della UE

la Cina produce il 93% di magneti permanenti contro l’1% della UE

E’ realistico affermare che dipendiamo dalla Cina? Che senza di lei la nostra transizione ecologica resta solo un bello slogan? Si, 98%, detto prima.

E’ ragionevole supporre che tale predominanza non sia solo frutto di una politica lungimirante (pubblicai anni fa  – non qui – una inchiesta che mostrava come nel Paese di mezzo stavano investendo come non mai in questo settore, proprio per acquisire un indubbio vantaggio politico e non solo tecnologico) ma sia stata favorita da tutele ambientali per anni inesistenti?

E quando noi ci sentiamo tanto ecologisti con la nostra auto elettrica con motore e batteria europea (che è cinese) o giapponese, siamo consapevoli che lì dentro c’è anche un mezzo disastro ambientale?

Ho usato il parallelo con la Cina perché è la nazione da cui la UE maggiormente si approvvigiona, ma non pensiate sia l’orco cattivo.

Il Brasile ha conosciuto col precedente governo una devastazione ambientale senza precedenti per l’estrazione delle materie prime. In Congo si combatte ancora e i minatori sono bambini. Nel primo caso abbiamo l’85% della estrazione mondiale di Niobio, nel secondo il 68% della produzione di Cobalto e il 38% di Tantalio. 

Questi dati, come i precedenti, li ho ricavati dai report pubblicati dalla Commissione Europea, che posso definire fonte qualificata. Se ci sono errori (e non ci sono) la colpa è loro.

Sempre da fonte europea apprendo che stiamo messi maluccio anche nella trasformazione di queste materie prime in prodotti finiti: nel nostro caso le batterie.

Scomponendo una batteria in quattro elementi, ossia polisilicio, wafer, celle e moduli, abbiamo

il 76% della produzione è in Cina, il resto in Germania (12%), USA (5%), Malesia (5%), le briciole che restano sparse qui e là.

il 96% della produzione dei wafer è in Cina, l’altro 4% è disperso.

il 77% della produzione di celle è in Cina, un altro 13% in diversi Paesi del Sud Est Asiatico, USA, India e Giappone hanno solo l’1%, il resto sparso.

il 70% della produzione di moduli è in Cina, un altro 17% in diversi Paesi del Sud Est Asiatico, USA e Europa insieme sommano il 7%, il resto sparso.

Questa predominanza comporta che sei aziende cinesi gestiscono il 56% del mercato delle batterie per autotrazione.

Con quali standard ambientali e di tutela dei lavoratori?

Tecnologie pulite significa solo ridurre le emissioni a valle o anche a monte del processo produttivo?

Domande che, per fortuna, non mi sono posto solo io.

GBA, Global Battery Alliance, è la più grande organizzazione al mondo di aziende legate al mondo delle batterie, sia come produttori che come utilizzatori finali.

Nel 2021 ha presentato il progetto “Battery passport”, che entrerà a regime del 2026.

Un documento digitale che dovrà raccontare la storia di quella batteria: la costruzione, la durata, l’origine di materiali e componenti e in un secondo momento anche la garanzia che non è stata fatta usando il lavoro minorile. Io l’avrei messo al primo punto, ma tant’è.

Prevedendo un vero e proprio standard, e anche un sigillo di qualità, che sulla carta dovrebbe garantire di arrivare in tempi brevi a batterie più sostenibili, perché con un alto grado di riciclabilità, basate su dati standardizzati, comparabili e verificabili. Il tutto basato su regole e raccolta dati certi e verificati stabiliti dalle parti interessate dell’industria, mondo accademico, organizzazioni non governative e governi.

Una buona notizia seppure a metà.

Della GBA fanno parte colossi del settore, ne cito alcuni in ordine alfabetico: Audi, Basf, Bmw, Calb, Catl, Enel, Eurasian Resources Group, Glencore, Lg Energy Solution, Microsoft, Umicore, Stellantis, Tesla, Volkswagen, Volvo, oltre a organizzazioni non governative come IndustriALL Global Union, Pact, Transport & Environment, Unep, Unicef.

Mancano alcuni produttori cinesi (ma c’è la Catl che detiene il 34% del mercato) mancano le coreane SK e Samsung (che insieme fanno il 12% del mercato) e i giapponesi di Panasonic (10% del mercato), quindi si, la notizia almeno per metà è buona.

Manca qualunque nome legato al mondo delle bici elettroassistite e pesano proprio le assenza di Samsung e Panasonic che forniscono moltissime e-bike.

Alcune considerazioni in chiusura.

Ho citato il confronto con la Cina, la dipendenza della UE ma non per attaccare una Nazione della cui millenaria storia ho profondo rispetto. E’ per fotografare la realtà: quella di un Paese che, pur motivato in larga parte da una volontà di affermazione, ha saputo con lungimiranza guardare oltre per alcuni anni. Perché la corsa alle tecnologie green e alle materie prime per crearle è nata due decenni fa e più. Ma oggi, con evidenti cambiamenti rispetto alle politiche degli albori, rappresenta proprio la pericolosa antitesi che è il filo conduttore di questo articolo.

L’Europa ha trovato una vera unità solo davanti a situazioni catastrofiche che non tenevano conto di confini e piccoli interessi, l’essere la Cina una nazione enorme e politicamente monolitica ha sicuramente favorito le scelte economiche e politiche, seppure a un prezzo che noi non intendiamo pagare e che è lontanissimo dalla nostra idea di vita democratica. Non mi sono, per dirla chiara, allineato alle posizioni bislacche di alcuni esponenti dell’attuale governo, che lo sapete è a distanza siderale dal mio modo di pensare.

A maggior ragione quindi appare chiaro che se la via autarchica è impossibile e deleteria, come la storia ha mostrato, allo stesso modo anche quella della quasi totale dipendenza da un solo Paese è pericolosa, come a sua volta dimostra la cronaca.

L’Europa ha la potenzialità per sviluppare in proprio tecnologie sostenibili, seguendo alti standard ambientali e sociali. Ma può farlo solo se si muove superando steccati ideologici e senza il mettersi di traverso da parte di Nazioni i cui governi sono preoccupati solo di non perdere consensi. O che puntano su tecnologie che è già dimostrato mancano di validità. Come purtroppo sta facendo oggi l’Italia. 

Tutto quanto detto fin qui tocca marginalmente il nostro mondo a pedali, anzi, il mondo a pedalata assistita. Anche se i numeri sono alti, la quantità di terre rare e magneti che servono a una bici sono cosa minima rispetto al settore automotive, la frontiera verso cui ci stiamo dirigendo. D’altro canto la mobilità elettrica è per molti aspetti terreno vergine, fattori come autonomia, riciclo batterie, riduzione delle dimensioni e così via hanno ampi margini di sviluppo. Uno sviluppo che potrebbe poi essere travasato anche per noi.

Vero che uno può dire “che mi importa, io pedalo di gambe e basta”; ma come ho già detto in altri articoli, a noi non interessa convincere i ciclisti ad andare in bici, lo fanno già: a noi serve convincere gli automobilisti e una e-bike è preferibile a un’auto. Col vantaggio indiretto che una volta messo in sella l’automobilista, questo si renderà conto di cosa significa stare in strada su una bici e forse ci penserà due volte prima di farci il filo mentre sorpassa.

E poi, immagino, molti di noi una vettura la tengono, alla fine sono informazioni che fanno comodo, indipendentemente se lette qui o altrove, soprattutto ora che è ufficiale lo stop a benzina e diesel per il 2035. 

La produzione di una e-bike (come di una bici classica) non è a impatto zero. Ma resta comunque inferiore a quella di un’auto, che sia elettrica o con motore a combustione interna.

Pretendere che il mondo pedali solo su bici classiche è fuori discussione, siamo un popolo abituato al telecomando per tutto, ora manco più quello, ci sono i comandi vocali: e chi li convince a sudare?

Il settore automotive elettrico presenta ancora troppe criticità da risolvere per poterlo definire sostenibile, quello delle e-bike è invece più avanti e con ampi margini di miglioramento.

E sarebbe bello, e suppongo anche un ottimo manifesto pubblicitario, se le aziende produttrici di e-bike e componenti a loro dedicate esibissero il Battery passport. 

E non dimentichiamo che qui parliamo di mobilità sostenibile, la passione è altra cosa e riguarda noi, non quelli che vorremmo lasciassero l’auto in garage. Che pure cerco di coinvolgere e infatti ho in programma proprio il test di una e-bike, la Trek FX+, magari ne convinco qualcuno…

So che questo articolo è quanto più lontano possa esserci dall’idea di leggerezza che avete il diritto di pretendere da un blog di biciclette.

Ma nutro un profondo rispetto per voi che venite qui, non potrei mai offendervi pubblicando sciocchezze sulle gambe depilate si o no, la cera da sciogliere per lubrificare la catena o guerreggiare sul cambio senza forcellino.

Arrivare a questo articolo è stato un lavoro lungo e complesso, iniziato molti mesi fa e che ha richiesto la consultazione di decine e decine di studi, ricerche, analisi di mercato: operare la sintesi, ove mai mi fosse riuscito, è stato complicato.

Come vi ho detto la volta precedente, essere ciclisti non fa di noi automaticamente degli ecologisti: però sono convinto che molti di noi sono più sensibili di altri al problema.

L’altra sera a cena celiavo mia figlia a proposito di una serie tv ricavata da un video gioco, roba su zombi o funghi umani, non ho ben capito, avvisandola che in situazioni simili non sarebbe stata lei l’eroina pronta a salvare il mondo.

Con rassegnata consapevolezza mi ha risposto “tranquillo, i funghi no ma nel 2050 sarò lì a combattere per l’acqua”.

Tremo al pensiero non sia uno scherzo e tutto indica che non lo è.

I nostri ragazzi sono più in gamba di quanto pensiamo, smettiamola di prendere a esempio solo la cronaca e smettiamola di dire “ai nostri tempi noi eravamo, facevamo ecc ecc”. 

Trovo stucchevoli i miei coetanei che magnificano le gesta compiute da adolescenti, noi cresciuti nella spensieratezza degli anni ’80. In realtà molti dei problemi attuali nascono da lì e francamente trovo più maturo un ragazzo di oggi che si sposta in bici per amore del Pianeta piuttosto di noi (me compreso) in sella ai nostri due tempi. Posso giustificarmi con la mancanza di consapevolezza dell’epoca, ora no. E poi tutto questo brontolare non vi ricorda quello che subivamo noi dai matusa? Per come vestivamo, per la musica, il tirar tardi? Quindi su, smettiamola di dire che ai nostri tempi era meglio: eravamo solo più giovani e spensierati. E molto fortunati. 

Abbiamo il dovere di lasciare a questi ragazzi un mondo migliore.

Serve agire, serve cambiare, serve anzitutto conoscere. Spero con questo articolo di aver portato il mio contributo.

Oggi chiudo momentaneamente il cerchio sui tanti aspetti della mobilità sostenibile affrontati in queste settimane, più in basso i link ai vari articoli pubblicati. Ma non abbandono il tema, ci tornerò ogni volta sarà necessario.

Tante bici poco usate: e non servirebbero grandi sacrifici…

Shimano State of Nation 2022

Gli italiani ritornano in auto

Cosa serve per incentivare la bici?

L’alternativa alle accise esiste

Piano Europeo a sostegno della mobilità ciclistica

Tutto in 15 minuti

La bicicletta è davvero così ecologica?

Automobile, dobbiamo capovolgere tutto

 

Buone pedalate, sempre

COMMENTS

  • <cite class="fn">Pietro Di Nocera</cite>

    Grazie e sinceri complimenti per le interessanti ed eccellenti info chiarificatorie.

  • <cite class="fn">Franco</cite>

    bravo Fabio ! sono temi che seguo quindi le considerzioni e le conclusioni che se ne traggono non mi sono nuove, ma complimenti per l’approfondita documentazione e la sintesi accessibile a tutti. Non c’è altra possibiltà se non quella di diffondere il più possibile questi temi ben supportati da dati affidabili, per cui ben venga anche in questo blog di appasionati ciclisti. Se ci saranno ulteriori puntate, stai tranquillo che quelli che si annoiano saranno pochi

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Franco, come ho scritto in chiusura questo articolo chiude per il momento la “saga” che ho dedicato alla mobilità sostenibile analizzata sotto molteplici aspetti.
      I dati sono affidabili, ho usato solo fonti certe ma non ti nascondo che è stato un lavoro molto lungo. E la cronaca di questi giorni viaggia più veloce di quando io studi, per esempio bisognerà vedere cosa accadrà dopo l’intervento duro della Von der Layen e i risultati dell’incontro di domani a Pechino. Perché sul tavolo sarà calata la carta della dipendenza UE, oltre tutto il resto.
      Tornerò ogni volta necessario a trattare di mobilità, l’altro ieri un estemporaneo post sul referendum dei monopattini a Parigi mi ha fatto riflettere su come questo sia una spia importante di una sofferenza sempre più marcata. Che poi questo referendum sia stato male interpretato da oggi stanno iniziando a capirlo anche le altre testate e questo è un bene.

      Fabio

  • <cite class="fn">morescopiero</cite>

    E’ un’analisi molto completa e interessante che contempla molti degli aspetti coinvolti.
    Mancano, ma mi rendo conto perfettamente della difficoltà, analisi e riferimenti all’organizzazione sociale che condiziona in particolare la mobilità.
    Personalmente sono sempre più consapevole, ma questo non vuole essere una dichiarazione di resa, che come scrivevi inizialmente sia impossibile fare delle valutazioni oggi sulle soluzioni che pensiamo per il domani.
    Ti faccio solo un esempio. Fin quando ho lavorato mi sono interessato di salute e sicurezza sul lavoro; l’azienda in cui lavoraravo era molto sensibile sul tema dello stress lavoro corelato e in una delle tante valutazioni si è concordato con il sindato di estendere quanto più possibile, e si parla di migliai di lavoratori, lo smart-working come misura di conciliazione casa-lavoro e di riduzione dello stress per trasferimento e altro. Dopo qualche anno la valutazione dello stress lavoro corelato contempla i problemi di stress causato ai lavoratori troppo isolati. Quella che era una soluzione ad un problema è diventato un ulteriore problema. E potrei farti molti altri esempi.
    Purtroppo senza una valutazione globale del problema, anche in termini geo/politici; e delle misure di mitigazione per lo stesso non se ne viene fuori.
    Ti dico l’ultima. In una convengno internazionale sul clima, alla fine dello stesso, ci siamo intrattenuti con i relatori anche intarnazionali. Ho chiesto se era possibile capire quanto di quello che sta succedendo ora del clima è attribuibile al mio vissuto che al tempo era di circa 60 anni: non ho avuto una risposta. E la cosa non mi ha certo rassicurato.

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Piero, in un passaggio ho scritto “La Autorità internazionale dell’energia in un suo report afferma che circa la metà della riduzione delle emissioni arriverà da tecnologie che non sono ancora disponibili”.
      Solo questa frase mi è costata la lettura delle 80 pagine di quel report, dove, appunto alla fine la conclusione è questa.
      Non si hanno certezze sulle strategie da seguire, l’unica certezza è proprio che nessuno ha una soluzione chiara.
      A cui aggiungiamo i piccoli interessi particolari, quando invece servirebbe unità globale.
      La buona notizia è che bene o male ormai la questione è all’attenzione di tutti, fingere che i problemi non esistono non è più possibile.

      Fabio

  • <cite class="fn">ANTONIO DANIELE</cite>

    ottimo articolo che condivido appieno Fabio; ricevi i miei complimenti! Mi auguri che molti lo leggano e ci riflettano …magari cominciando a smuovere le acque dal basso

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      …e non ho usato l’intelligenza artificiale presidé…
      ahhhhhhh, come devo fare…
      heheheehehheeh

      Fabio

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