Il bike sharing che fu

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Il bike sharing, letteralmente “bicicletta in compartecipazione” ma detta così suona una schifezza, è realtà consolidata nei cinque continenti.

L’amministrazione locale prende un certo numero di bici, crea una serie di infrastrutture per ritiro e deposito nei punti cruciali della propria città (solitamente in prossimità di stazioni ferroviarie e metropolitane nonché grandi parcheggi di interscambio), crea una società o si avvale di una già esistente per la gestione tecnica e la manutenzione delle bici ed ecco il bike sharing pronto e servito.

I vantaggi? Innumerevoli per i cittadini e i ciclisti, persino per un accumulatore seriale di bici come me. Se risiedi fuori città, arrivi col trasporto pubblico, esci dalla stazione e inforchi una bici per recarti al lavoro, senza doverti preoccupare che nel tuo ufficio non è ammesso portarla e dovresti lasciarla al palo sperando di ritrovarla. Lo stesso se risiedi in città, usi la bici in condivisione, la lasci al suo stallo e non hai altre preoccupazioni. Diventa una buona soluzione per tutti, anche chi ha già una bici.

Vantaggi anche per il comune assennato che decide di dotarsi di un servizio di bike sharing: meno traffico privato, meno problemi con la sosta selvaggia, migliore qualità dell’aria e così via.

Insomma, è una cosa buona e a metterla in piedi servono risorse ma non chissà che scienza; ormai le tecnologie sono in uso da anni ed è facile avvalersi delle esperienze di altre amministrazioni. Nulla da inventare da zero per capirci.

A Napoli una volta c’era il bike sharing. Verso il quale non sono stato tenero, evidenziando in più di un articolo i tanti punti da migliorare.

Ma più di tutto contestavo una cosa: era una sperimentazione. Che di per sé potrebbe anche essere utile, ma tradotto nell’esperienza di governo di questa città sapevo avrebbe significato solo qualche mese con le bici in giro, interviste, spot elettorali e poi tanti saluti, abbiamo scherzato e del bike sharing si sarebbe perso memoria.

Ossia quello che è successo, che avevo previsto e che mi è valso più di qualche irato commento da parte dei pasdaran dell’amministrazione comunale.

Tutto fermo, in stato di palese abbandono.

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E’ facile dare la colpa al MIUR (al quale ho inoltrato richiesta di chiarimenti, se arriveranno vi aggiornerò) però bisogna tener conto di alcuni fattori.

Il bike sharing è nato come progetto sperimentale; una sperimentazione malfatta ma non è questo il punto. Il punto è che da un esperimento, qualunque esperimento, è lecito attendersi dei risultati al suo termine. Ossia si sperimenta perché si raccolgano i dati e da questi si traggano conclusioni.

Invece noi abbiamo solo il numero di sessioni impegnate e chilometri percorsi. Stop.

Sapere che in X mesi le bici sono state usate 15.000 volte e hanno percorso 120.000 km dice ben poco; considerando pure che durante la fase sperimentale l’uso delle bici era gratuito e non è detto che tutti quelli che hanno usato la bici in condivisione sarebbero poi disposti a usarla una volta a pagamento.

Tra l’altro anche questo sui chilometri è un dato che mi lascia perplesso. Quindicimila sessioni per centoventimila chilometri mi danno una percorrenza media di otto chilometri a sessione. Però molti stalli distano tra loro appena poche centinaia di metri e quindi per ognuno che ha percorso i mille metri da uno stallo all’altro (se non meno…) ci deve essere stato un altro ciclista che di chilometri ne ha percorsi quindici. Che nei trenta minuti di tempo massimo in cui si poteva usufruire della bici significa aver pedalato a trenta chilometri orari di media. Con punte ovviamente superiori per recuperare il tempo perso a un semaforo, un ingorgo o qualunque altro rallentamento. Un passo notevole, direi prodigioso, in città, nel traffico e con bici di oltre 18 chili a tre rapporti. Non so, ma qualcosa non mi quadra. Sicuramente per una mia incapacità coi numeri e le statistiche, non posso pensare si tratti di dati falsati.

Ma torniamo ai risultati della sperimentazione e prendiamo per buoni i 120.000 km percorsi.

Su che percorsi? Come hanno inciso sulla viabilità? Il livello di smog? I tempi di percorrenza? Hanno aiutato i pendolari? Le bici sono state scelte al posto dell’auto o solo da ciclisti che semplicemente le trovavano più comode rispetto alle proprie? Le bici si sono rivelate adatte ai percorsi? Gli stalli erano collocati nelle giuste posizioni? Ci sono stati problemi tecnici nella gestione del ritiro/consegna bici?

A questa come a tutte le altre domande a cui avrebbe dovuto rispondere una fase sperimentale degna di chiamarsi tale non vi è stata alcuna risposta. Solo il classico vittimismo farcito di proclami a effetto, perché qui anche ciò che è normale in qualunque parte del mondo deve sempre essere presentato come una rivoluzione impossibile: ma con tenacia i nostri eroi l’hanno avuta vinta contro i poteri che remano contro. Ma per favore…

Oltre a non avere prodotto nemmeno uno straccio di studio serio da presentare a sostegno di questo progetto, dal cilindro si è tirata fuori l’idea di affidare il servizio, se e quando sarebbe diventato effettivo, alla Azienda municipalizzate dei trasporti. Ossia quella stessa azienda che tiene fermi circa il 75% degli autobus per mancanza di manutenzione e soldi per i ricambi.

Ora, domando, ma secondo voi il MIUR che dovrebbe fare? Senza studi, progetti seri, con la dimostrazione di inefficienza come unico risultato certo della sperimentazione e la prospettiva di affidare a un soggetto ancor più inefficiente?

Sia chiaro: il ministero non deve sborsare un centesimo: solo autorizzare “cedendo” i risultati al Comune affinché lo continui. Perché la fase sperimentale è proprietà del MIUR che lo ha finanziato.

Altrimenti il Comune dovrebbe iniziare un progetto ex novo. Cosa che non farà perché non ha i soldi e quelli che ci sono servono ad altro, cose più urgenti tipo i vari concerti in piazza e la sagre sul lungomare. Così è più comodo, non fai il bike sharing e hai pure il capro espiatorio nel ministero.

Perché il MIUR non cede i risultati? Già, quali risultati? Sbandierare le ore di utilizzo non è un risultato, è propaganda. Dov’è lo studio che sarebbe dovuto nascere dopo la sperimentazione? Non c’è. Punto.

Il bike sharing non è fallito; non poteva fallire perché era un progetto che già al suo primo vagito non aveva futuro. Il bike sharing è stato la scusa per sperperare denari pubblici e dare modo a qualcuno di gonfiare il torace a favor di telecamera. Lo dissi subito, sperando in cuor mio che i fatti stavolta mi avrebbero smentito. Invece ho avuto ragione e credetemi, mai ho provato tanto rammarico nel non aver sbagliato.

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COMMENTS

  • <cite class="fn">Francesco</cite>

    Qui a Milano il progetto del bike sharing è partito in sordina, con poche stazioni, ma si è espanso in maniera costante .
    Perchè abbiano successo queste iniziative , occorre che l’amministrazione comunale ci creda e spinga al suo sviluppo , altrimenti tutto è vano.
    Non mi dilungo sui flussi del bikesharing a Milano, ma riassumo: non risolverà i problemi di traffico ma aiuta a snellire i flussi di pendolari che userebbero l’auto anzichè i mezzi pubblici.

  • <cite class="fn">vrevolo</cite>

    speriamo possa ritornare!

  • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

    Ciao Lorenzo, lo spero pure io ma ho forti dubbi. Il vero collo di bottiglia non è il ministero…

    Buon per voi milanesi Francesco, e questo dimostra che se una cosa è ben fatta e tenuta poi i risultati arrivano.

    Fabio

  • <cite class="fn">Andrea</cite>

    Peccato, tante volte nelle città ho pensato “quanto sarebbe utile e piacevole avere una bici a portata di mano”. Mi sembra abbia seguito un poco il destino delle piste ciclabili, abbandonate a loro stesse eccetto lodevoli eccezioni

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