Ciclisti vs. resto del mondo?

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Un ciclista aggredito non fa notizia, se il ciclista è famoso si. E la notizia non è l’aggressione ma a rendere la vicenda meritevole di pubblicazione è il livello di celebrità del malmenato di turno. Insomma, nel giornalismo non contano i fatti in quanto tali, solo quanto un episodio può destare curiosità nei lettori.

Nulla di cui scandalizzarsi, è la stampa bellezza.

Ma come sappiamo dal mondo della pubblicità, che sia bene o male l’importante è che se ne parli. E quindi l’aggressione a Brumotti, quel tizio che saltella ovunque e con qualunque aggeggio abbia due ruote e due pedali, è una notizia giornalisticamente interessante (che significa interessante per la pubblicazione) e, suo malgrado, utile a portare alla ribalta un fenomeno ben più diffuso di quanto si immagini.

Perché le decine di altre aggressioni, quelle che vedono vittime normali pedalatori sconosciuti ai più, non fanno notizia. E se non fanno notizia è come non fossero mai esistiti. Ce lo dimostrò in modo chiaro il regime nel suo Ventennio imponendo la censura a tutti gli eventi di cronaca violenta. Da un giorno all’altro furti, rapine, aggressioni, omicidi è come fossero spariti, mai commessi: l’Italia un Paese sicuro, privo di criminalità. Falso, ma la percezione era quella.

Già, la percezione, il vero fulcro intorno cui ruota tutta l’informazione. Non attingiamo alle fonti per le nostre conoscenze, ma conosciamo sempre con la mediazione di uno strumento che ci informa. In una guerra non siamo in prima linea a vedere coi nostri occhi cosa succede: è il narratore che riporta ciò che vede, e non sempre ciò che riporta è ciò che accade.

Anche qui nulla di cui scandalizzarsi, è la stampa bellezza.

Per alcune distorsioni di questo sistema ci sarebbe di che scandalizzarsi, perché la stampa non dovrebbe essere così bellezza. Per esempio il risalto dato alla presentazione del libro di memorie (sic!) del nostro comandante purtroppo più famoso, quel delinquente incapace che ha fatto affondare una nave causando la morte di decine di persone; lesto poi ad abbondonarla. Conrad condusse il suo Lord Jim a cercare la morte in un remoto angolo dell’Estremo oriente per riscattarsi dal suo peccato; qui abbiamo feste, conferenze all’Università e un editore disposto alla pubblicazione: spero almeno non troverà acquirenti.

Ma al solito divago, torno in tema.

Mi spiace per Brumotti, ma da ciclista e giornalista riconosco la validità dell’episodio perché, come usa dire, ha acceso i riflettori su un problema sconosciuto ai più: dopo i pedoni, i ciclisti sono la categoria più a rischio sulle strade.

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Solo vittime o anche colpevoli? Tutte e due, come ho detto spesso andare in bici non ci rende persone migliori. Nel nostro mondo troviamo tutti, le persone perbene e gli stupidi, gli onesti e i delinquenti e così via. Mai creduto a una superiorità morale o antropologica del ciclista rispetto ad altre categorie. Non lo credo quando passeggio, non lo credo quando guido la moto, non lo credo appunto in bicicletta.

Sono sempre lo stesso, qualunque il veicolo che in quel momento sto usando. Certo, ci sono persone che a seconda del mezzo scelto cambiano atteggiamento, ma qui poi dovremmo addentrarci nel campo minato di quanto le circostanze esterne modifichino le nostre percezioni e già la sto tirando troppo per lunghe, lasciamo perdere.

Tanti, tantissimi i comportamenti scorretti che vedo compiere da chi pedala; dall’insana abitudine di creare un gruppone unico che occupa l’intera corsia a quello di “bruciare” incroci e semafori per non perdere il ritmo, dal confondere una ciclabile con un velodromo all’uso degli auricolari per ascoltare musica in tutte e due le orecchie, dallo sfrecciare sui marciapiedi sfiorando i pedoni al pedalare di sera, al buio, senza una luce e un giubbotto rifrangente.

Insomma, pure tra le nostre file c’è chi ha le sue colpe, autoassolverci definendoci solo vittime non mi sta bene.

Però se ci prendiamo la briga di spulciare tra le pagine di cronaca locale di quel piccolo e affollato universo costellato da una pletora di quotidiani e siti internet che pubblicano notizie per un minima porzione di territorio, dove l’arresto di un balordo che ruba pochi centesimi dalla cassetta delle offerte in chiesa merita la prima pagina, troveremo tanti, troppi episodi di insofferenza verso i ciclisti.

Negli ultimi anni le vendite di biciclette hanno superato quelle delle automobili, ma in Italia continua a latitare una vera cultura ciclistica e le quattro ruote restano l’intoccabile feticcio, dopo o insieme al calcio, di questo Bel Paese.

In nessuna delle mie idee sono un fondamentalista; uso l’auto (molto poco ma ne riconosco l’utilità in diverse occasioni), la moto e ovviamente la bici. Se sono in auto (o in moto) e vedo un ciclista presto attenzione a non eseguire alcuna manovra che potrebbe causare pericolo. Spesso se c’è vento forte contrario gli tiro la scia. Se la strada è stretta e nel superarlo potrei rischiare di sfiorarlo semplicemente mi accodo e aspetto un tratto dove la corsia allarghi. Perché vado in bici, so cosa significa pedalare su strada aperta al traffico e mi comporto di conseguenza.

E lo stesso se sono in bici, dove mi preoccupo di segnalare ogni svolta, ogni cambio di direzione, mi giro a controllare il traffico, gesticolo se vedo qualcuno che sta immettendosi sulla strada da una traversa o da un parcheggio (soprattutto se ho il sole basso alle spalle, so che ha difficoltà a vedermi) adottando tutta una serie di piccoli gesti che provano a salvaguardare me e semplificare la vita a chi mi incontra su strada.

Ecco, questa è cultura ciclistica: quale sia il veicolo al momento utilizzato, ognuno dovrebbe sapere cosa fare e non fare incontrando una bici o pedalando egli stesso.

Ma io sono stato fortunato, mi è capitata questa passione, tanti anni a pedalare alla fine qualcosa ho imparato; chi invece alla bici ci arriva ora? E mi riferisco a quelli che per rinnovato spirito ecologista, perché stufi di passare ore nel traffico o a cercare un parcheggio o semplicemente perché la bici è diventata trendy iniziano adesso a pedalare, che cultura possono avere, mentre sono in bici o quando usano l’auto?

Nessuna, perché nessuno li abituati a “comprendere” cosa significa usare una bici su strada. E, chiariamo, mi riferisco all’uso della bici anche e soprattutto come mezzo di trasporto, seppure è una definizione che mi costa fatica accettare, non riesco a ridurre il fascino della pedalata a semplice fine utilitaristico. E, sempre per fugare ogni dubbio, chi è arrogante in bici (e ci sono…) lo sarà anche in auto e viceversa. Se uno è cretino, lo sarà sempre.

Manca cultura perché sempre si è avuta una visione distorta della bici nel nostro Paese: o attrezzo sportivo per maniaci della pedalata o placido passatempo per signore e signori di mezza età o giocattolo per bambini.

Lo vediamo da come il nostro codice della strada tratta la bicicletta, anzi il velocipede, e da come molte amministrazioni comunali del centro sud interpretano le ciclabili, lì dove presenti.

Il codice della strada è, come tutte le patrie leggi, incerto, contraddittorio e di difficile comprensione. Definisce il velocipede, impone alcuni obblighi nell’allestimento e prevede pure le sanzioni: voi quante bici con luci, catadiottri, campanello ecc vedete girare? Appunto. In Italia le leggi si promulgano a iosa, senza rendersi conto della loro inapplicabilità.

Poi sempre il codice della strada indica quali sono i comportamenti da tenere in strada; in gruppo no, in fila indiana si, a coppie solo se la strada lo consente. Scusi egregio Legislatore, che significa la strada lo consente? Devo chiedere il permesso alla carreggiata? Devo misurare la larghezza? Vado a occhio? Sarebbe così gentile da spiegarmelo, perché io posso anche essere convinto che la strada me lo consente ma se poi l’omino blu con la lucetta sulla macchina è di parere opposto, che facciamo?

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E le ciclabili? Ogni Sindaco che vuole sentirsi politicamente corretto decide a una certo punto del suo mandato di farsi la ciclabile. Tralascio lo scempio della ciclabile della mia città, ne ho già scritto. Ma non è che altrove sono messi meglio. Però sempre il codice ci impone di usarle se presenti. E io spesso vengo meno a quest’obbligo. Perché troppe ciclabili sono fatte male, pericolose per i ciclisti invece di essere un percorso sicuro; perché troppe ciclabili sono del tutto prive di manutenzione e sporco, buche, detriti, vetri e così via invadono ogni superfice: o cadi o buchi.

Ma la mancanza di cultura ciclistica si riverbera anche nella collocazione di queste benedette ciclabili. Che, andrebbe ricordato, sono vere e proprie arterie stradali, vie di comunicazione e transito e come tali andrebbero interpretate. Posso accettare una ciclabile creata solo sul lungomare di una piccola località turistica, dove esigenze particolari di mobilità non esistono ed è piacevole per i villeggianti avere un percorso protetto per andare a mare in bici, magari coi bambini che frullano le gambine contenti. Non posso accettare una ciclabile solo sul lungomare di una citta di medie e grandi dimensioni tralasciando ogni altra zona dove, invece, sarebbe necessario avere percorsi sicuri per favorire lo snellimento del traffico veicolare e incentivare l’uso delle bicicletta come, lo dico, mezzo di trasporto.

Questo nasce perché chi amministra non ha cultura ciclistica, intende la bicicletta né più e né meno come un semplice svago, senza comprenderne tutte le potenzialità e senza preoccuparsi di conoscere le esigenze di chi in bici si sposta.

E tutto questo porta noi ciclisti a condividere le strade con gli altri veicoli, che sono sempre più veloci e/o grandi di noi.

In un mondo dove tutti hanno fretta qualunque cosa facciano, in un Paese dove tante strade seguono ancora le vecchie vie Romane e borghi e città conservano la struttura medievale, e strade strette erano necessarie alla facile difesa, il problema si traduce in una semplice verità geometrica: la superfice non basta.

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E così le biciclette sono viste come un ostacolo, da scavalcare velocemente se va bene, da abbattere se va peggio.

Ne usciremo mai? Riusciremo a crescere finalmente? Ad essere come tante Nazioni europee o di altri continenti dove esistono cultura ciclistica e rispetto per chiunque utilizzi una strada?

Per come stanno le cose adesso, no. Perché questa è la classica rivoluzione che non può partire dal basso, da noi e basta. E’ necessario un deciso intervento legislativo, che non deve tradursi nell’ennesima immissione di regole incomprensibili quanto piuttosto in un deciso snellimento di queste. Regole non solo di circolazione, ma che impongono alla scuola di insegnare, per davvero, cosa significa impegnare una pubblica via con un qualunque veicolo a motore e no; regole che impongono (e incentivano) le amministrazioni comunali a dotarsi di percorsi sicuri, privilegiando non l’aspetto ludico della bici ma il suo utilizzo come mezzo di trasporto alternativo, quindi percorsi studiati sui flussi di mobilità verso i luoghi di lavoro, non per godersi il panorama; regole che impongono la miriade di enti locali a “fare sistema”, muoversi tutti insieme per favorire la mobilità dalle periferie e dalle province verso i grandi centri urbani, quindi treni attrezzati (ci sono, ma pochi) tariffe agevolate, parcheggi custoditi, tutto ciò che serve a chi rinuncia all’auto per spostarsi in bici. Ne gioverebbero tutti: il pianeta, la nostra bilancia commerciale, le città, noi che l’aria di queste città respiriamo e magari anche chi in bici già si sposta da tempo, perché nuovi ciclisti (forse) imparerebbero sulla loro pelle quanto pericolosi sono i comportamenti di tanti automobilisti e la prossima volta alla guida di una auto ci penserebbero su prima di azzardare il sorpasso o sbraitare perché il ciclista in salita si è piantato.

Ne gioverebbe l’umore di chi al lavoro ci va in bici, e questo dovrebbe interessare le aziende perché un lavoratore sereno lavora meglio, produce di più e si ammala di meno. Sembro cinico? Forse, ma è realtà e di essere cinico già mi hanno accusato. Come quando in periodo di buonismo imperante sostenni per primo che il problema degli incidenti stradali era un problema prettamente economico, definendo i morti in termini di lucro cessante e dimostrando quanto investire in sicurezza avrebbe fatto guadagnare al nostro Paese. All’inizio mi guardarono male, poi lo studio dei danni economici (e il concetto di lucro cessante) divenne prassi e fu ripreso (e copiato…) da tanti.

Se non siete convinti del fatto che andare al lavoro in bici sia più rilassante, fate la prova voi stessi. Auto significa traffico (ovviamente mi riferisco alla realtà delle metropoli), tempo per trovare il parcheggio, stress; andare in bici significa salutare attività fisica, che sappiamo ha benéfici effetti sull’umore (rilascio di endorfine), nessun problema o perdita di tempo per il parcheggio, tanto divertimento. Chi si siederà più sereno alla scrivania?

Alcune aziende statunitensi, con pragmatismo tutto yankee, offrono incentivi a chi si reca al lavoro in bici; persino a chi non usa gli ascensori preferendo le scale. Non è buonismo, sono le aziende che si accollano spesso le (costose) assicurazioni sanitarie: un lavoratore in buona forma fisica, soprattutto in una Nazione dove l’obesità è una piaga sociale, significa meno costi per cure e terapie.

Noi che ci spostiamo in bici non siamo migliori degli altri, forse solo un poco più magri; eppure qualcosa di buono lo facciamo, per noi stessi e per gli altri, preferendo i pedali. Non solo non ci viene riconosciuto, ma ogni giorno dobbiamo lottare contro mille ostacoli. Perché in questo Paese manca cultura ciclistica.

Se l’aggressione a un personaggio conosciuto può diventare il megafono in cui urlare le nostre esigenze, io non esito a sfruttarlo e tutti noi dovremmo profittare di questo momento in cui i media si accorgono del problema.

I ciclisti non sono soli contro tutti ma di sicuro ne abbiamo troppi contro.

COMMENTS

  • <cite class="fn">Franco</cite>

    Sono completamente d’accordo con questa analisi. La diffonderò il più possibile.

  • <cite class="fn">daniele</cite>

    Sono d’accordo in toto.
    È necessario, a mio modo di vedere, cambiare mentalità e cultura agli italiani (e non basteranno 100 anni) e cambiare classe politica (e su questo l’unica speranza io la ripongo sul movimento 5 stelle. Se poi falliranno o non gli daremo possibilità di provare a governare, dovremo scappare da questo paese).

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Daniele, confesso che ho avuto la tentazione di “oscurare” la tua preferenza per un movimento politico. Non per accordo o disaccordo con quanto sostiene questo movimento ma solo perché ho sempre cercato di tener fuori dal blog i riferimenti che facilmente possono scatenare polemiche.
      Alla fine, come vedi, è prevalso il mio fastidio verso la censura; anche perché posso essere orgoglioso (e lo sono, infatti) di voi che leggete, in questi due anni e mezzo di vita tra vecchio e nuovo blog non ho mai avuto necessità di cancellare commenti o disinnescare polemiche. Solo uno, di un mio amico di vecchia data e solo perché era in coda a una pagina e potevo considerarla quasi un messaggio privato inviato a me e non un commento, altrimenti non l’avrei cancellato.

      Fabio

      • <cite class="fn">Daniele</cite>

        Ciao Fabio,
        ovviamente il blog e’ tuo e gestisci i commenti come ritieni piu’ opportuno.
        Spero che il mio commento possa servire da stimolo e non a generare polemica.

        • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

          Tranquillo Daniele, il mio non era né un rimprovero né un richiamo. E poiché ho la certezza che voi che leggete siete molto più intelligenti di chi cura questo blog non penso che qui, come inevitabile altrove, aver sfiorato il minato campo della politica potrà generare polemiche 🙂

          Fabio

  • <cite class="fn">Matteo</cite>

    Ho diffuso anche io la tua illuminante analisi. Purtroppo l’ignoranza/avversione verso noi ciclisti non si vede e si sente solo su strada ma anche nelle chiacchere con le persone di tutti i giorni. Ogni tanto il solito ignorantone viene da me, sapendomi ciclista, e mi redarguisce dicendo che noi occupiamo per intero le carreggiate di marcia chiacchierando oppure non ci spostiamo al suono del clacson a velocità proporzionale dell’auto che sopraggiunge. Ogni giorno che esco in bici prego Dio di farmi tornare sano e salvo alla mia famiglia. Sono un militare e nemmeno quando sono andato in missione di pace all’estero ho avuto paura tanta quanta ne provo quando il solito pirla, per farmi un dispetto, mi sfiora con la fiancata del suo mega Suv………

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Oibò Matteo, sentirsi più al sicuro sugli scenari di guerra piuttosto che sulla patrie strade mi lascia basito. Ma hai ragione, quando sono in vacanza evito sempre uscire la domenica, davvero ogni volta col surplus del traffico dei vacanzieri è una lotteria tornare a casa.

      Fabio

  • <cite class="fn">Carlo Gallia</cite>

    Sono tornato proprio ieri da Berlino e ho avuto la dimostrazione di quanto un altro mondo sia possibile, nonostante il traffico della grande metropoli. Piste ciclabili continue e appositamente studiate e semafori con segnalazioni specifiche per i ciclisti che, di conseguenza, sono numerosissimi ed universalmente rispettati. Mia moglie ed io abbiamo affittato una bicicletta e circolato benissimo vincendo facilmente il timore della città grande e sconosciuta. Davvero una esperienza bellissima, esaltante e deprimente al tempo stesso per l’inevitabile confronto con la realtà di casa nostra. Certo che è una questione di cultura, nei governanti e nei governati. E questo blog svolge un servizio prezioso al riguardo.

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Carlo, hai centrato perfettamente il punto: “…una esperienza bellissima, esaltante e deprimente al tempo stesso…”
      Quello che mi fa rabbia è che la nostra non è una condizione immutabile, una condanna senza appello. In tantissime Nazioni il rispetto è realtà, e non parlo solo del rispetto per i ciclisti.
      Se lo fanno altrove perché noi no? Si, mi fa rabbia

      Fabio

  • <cite class="fn">Raffaele Puglia</cite>

    io penso che sia solo un fattore di cultura l’italiano è rimasto fascista dentro per cui se non ha il pecoraio che spinge rimane nel suo giardino …neanche più l’orticello perché non produce… in attesa che arrivi il nuovo duce che lo faccia vivere serenamente … high

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