Surly Cross Check, il test

Tempo di lettura: 7 minuti

Dopo aver presentato il telaio, mostrati alcuni componenti e scritto del montaggio è il momento di scoprire come si comporta su strada questa Surly Cross Check by Elessarbicycle. Si, con l’autocitazione.

Ma: siamo partiti da un telaio di serie e non acquistato la bici completa; poi lo abbiamo vestito con molte cose belle, creando un esemplare unico. Io e Antonello, non sono diventato così megalomane da usare il plurale maiestatis. Non ancora.

In realtà le genesi è stata diversa, perché il punto di inizio sono state le ruote e la guarnitura, ereditate da un progetto che poi non vide la luce per sopraggiunte difficoltà economiche. Sarebbero dovute andare comunque su un telaio Cross Check e Antonello decise di subentrare e dare seguito a quell’idea.

Che è diventata una idea mia, mai come questa volta ho dato indicazioni e guidato le scelte, quindi se qualcosa non vi piace la responsabilità è solo di chi vi racconta.

Alla fine ne è venuta fuori una bici assai graziosa e armoniosa, pensata in modo opposto alla mia Elessar, anche se c’è chi ha voluto a tutti i costi vederci una similitudine. La mia Elessar ha come punto focale il telaio, non tanto per estetica ché è carino ma nulla di eccezionale, perché rappresenta tutto ciò che deve essere un telaio non da corsa per il mio gusto di pedalare. Per questo nell’allestirla non ricorsi a nulla di particolarmente vistoso, non volevo che qualche componente sibaritico catturasse la scena rubandola a quei tubi, saldati seguendo un istinto. La Cross Check all’opposto è un telaio di grande produzione, dalle ottime caratteristiche dinamiche ma pur sempre un prodotto di massa e ne girano migliaia. La colorazione nera è classica ma non brilla certo per personalità e quindi volevo che il telaio passasse in sordina, nulla più dell’impalcatura per le scenografia dei componenti e delle piccole personalizzazioni che sapevo avrei eseguito.

Di solito mi lego ma non mi affeziono alle bici che assemblo per gli altri; stavolta consegnarla ad Antonello mi è difficile. Solo io so il tempo e la cura impiegati, nulla che sulle pagine di questo blog avrei saputo mostrare; solo io so cosa ha significato pensare questa bici, riuscire a conservare l’armonia a cui sempre miro ed evitare una costruzione barocca che chiunque avrebbe saputo fare. Solo io so che dietro questo semplice oggetto meccanico c’è il mio dono a una persona per cui ho grande affetto.

E comunque bella è venuta, poco da dire. Vorrei essere un fotografo almeno appena decente per mostrarla meglio, ma questa è una bici che si può apprezzare solo dal vivo.

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Un rapido riepilogo di come è stata assemblato questo telaio Surly Cross Check, telaio già presentato in dettaglio in quest’articolo. Chi volesse una panoramica completa dei componenti che lo hanno addobbato può consultare invece questo articolo.

La taglia che vedete è la 50, scelta per l’orizzontale da 535; quella superiore si sarebbe rivelata lunga, anche se perfettamente utilizzabile da Antonello. E’ una caratteristica abbastanza comune con queste bici, soprattutto se nate negli USA dove la tendenza è sempre quella di avere un orizzontale ben sviluppato a garanzia di stabilità e comfort di marcia; quindi spesso per trovare le caratteristiche di guida più sbarazzine che cerchiamo o semplicemente perché vogliamo una bici che sia come quelle su cui abbiamo sempre pedalato dobbiamo ricorrere a una taglia (sulla carta, alla fine contano le geometrie) in meno rispetto a quella canonica fornita sulla base della lunghezza del piantone. Nella foto in basso si può notare lo sloping appena accennato.

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Malgrado la curvatura della forcella, la bici resta molto compatta con un avantreno che ha mostrato una reattività degna di bici acrobatiche.

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A far muovere questo tripudio di cromo e parti lucidate provvede una guarnitura Grand Cru Drillium, con dentatura 48/34; che è stata abbellita da me con una attenta smaltatura sia dei fori (tanti…) che delle fresature di alleggerimento.

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A farle compagnia abbiamo chiamato cambio e deragliatore della giapponese Sunxcd, erede della gloriosa Suntour; il primo consente di gestire sino al 34, il secondo è per doppia con salto massimo di 16 denti.

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Anche i comandi sono SunXcd, in versione downtube (ossia da montare all’obliquo ed è l’unica esistente) ma con un supplemento di lavoro ho adattato due supporti bar end.

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I cantilever sono i Grand Cru Mk 3, gestiti da una coppia di leve in alluminio abbondantemente forate fornite da Trp.

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Agiscono su ruote Grand Cru Raid, calzate da scorrevolissimi copertoncini Panaracer Pasela in misura 700×32.

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A coprirle ci ha pensato sempre Velo Orange con i suoi parafanghi in alluminio martellato, in questo caso la misura scelta è stata 45mm.

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Piega, attacco manubrio e reggisella sono i Ritchey Classic nuova serie.

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Sella Brooks B15 e nastro manubrio della stessa casa, vecchia versione, chiuso con la tecnica dell’incordatura.

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Per i portapacchi torniamo in casa Velo Orange, dove abbiamo dietro un Campeur e davanti un Pass Hunter, a cui sono stati fissati il Six Pack della stessa azienda e un apribottiglie artigianale fatto da me.

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Sempre dalla simpatica factory americana arriva la coppia di portaborraccia in acciaio Modernist.

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Altre personalizzazioni estetiche sono state la lucidatura delle zone in rilievo del collarino reggisella, la lavorazione e smaltatura delle brugole di fissaggio degli accessori e l’incisione a mano del nome del proprietario sul tappo serie sterzo, quest’ultima unica lavorazione delegata all’esterno.

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Inutile soffermarsi oltre sull’allestimento, come avete visto dal numero di link gli articoli in dettaglio non mancano. Mettiamoci in sella, soliti circuiti di prova e fuoristrada assai moderato, non mi sono concesso più di sentieri battuti e sottobosco abbastanza spoglio. Francamente mi ha bloccato il pensiero di una scivolata che avrebbe potuto danneggiare la bici prima ancora di consegnarla.

Ci sono slogan pubblicitari particolarmente riusciti e per sintetizzare questa bici ne prenderò uno a prestito, parafrasandolo: questa è la bici per fare quello che vi pare. Di mio ci aggiungo: divertendosi un mondo. Non c’è situazione in grado di metterla davvero in crisi, tranne i curvoni in discesa molto veloci: qualunque sia la tua destinazione lei ti porta; se non hai una destinazione è ancora meglio perché sali in sella sapendo che non ha importanza che tipo di strada troverai: prendi una direzione e vedi dove ti porta, non serve altro. Bellissimo.

Ammetto che mi è difficile essere imparziale e distaccato (se mai lo sono stato) con questa Surly. Non con questa in particolare, proprio con le Cross Check in generale. Oltre a produrre buoni telai, questi zuzzerelloni del Minnesota sono abilissimi nel marketing: non sono le sole qualità delle bici che ti catturano, ma quello che promettono. Hanno saputo associare alle loro biciclette e soprattutto a questa Cross Check l’idea della massima libertà, ogni uscita pronti per una avventura. Io ci sono cascato, e ne sono sempre stato innamorato.

Come si fa allora a provarla per davvero? Bastano i miei soliti circuiti di prova? Non ci vorrebbe qualcosa di epico, luoghi esotici, situazioni estreme? Le mie banali strade sono sufficienti? Beh, per capire la bici si, per godersela appieno forse no. Maledetto marketing…

Ma aggiungo una seconda difficoltà: come tutti i telai ben fatti avverte netto l’apporto della componentistica montata. E’ bastato un breve giro con altre ruote, quelle più sportive che ho assemblato per la mia Elessar con copertoni 700×28, per avere una bici molto diversa tra le mani. Quanto allora delle mie impressioni è replicabile utilizzando componenti diversi? Ben poco temo, sicuramente chi possiede una Cross Check montata diversamente troverà nelle mie note solo alcuni punti in comune; chi vorrà costruirsela o copia il progetto o dovrà industriarsi per doppiarne il comportamento.

Che è comportamento di alto livello in ogni situazione, malgrado l’aspetto la bici ha mostrato un notevole spirito sportivo. Pesa, almeno questa qui che è piena di roba, ma poi nemmeno tanto. Siamo a circa 13 kg, però basta eliminare i portapacchi che scendiamo di un paio di chili, non male per una bici in acciaio con telaio di serie. Un peso che si fa sentire solo nella scalate più ripide o quando la stanchezza impera, altrimenti una volta in movimento la bici sembra diventare più leggera. Merito sicuramente del telaio, ma oltre le mie aspettative si sono rivelate le ruote e soprattutto le coperture Panaracer Pasela, capaci di offrire una scorrevolezza superba, sembra che sfiorino appena il suolo.

Ma adesso basta chiacchiere, seguiamo il solito schema dei miei test che si snoda così come si evolve la strada che percorro; e lo sapete voi ciclisti più affezionati che parto sempre dal pavé, perché lui incontro per primo appena lascio casa.

Il nome Cross lascia intendere la sua attitudine al fuoristrada o quantomeno a cavarsela bene sullo sconnesso. Forse con gomme più corpose delle 700×32 che abbiamo montato; a proposito, la casa madre informa che è possibile arrivare fino alle 700×42 senza parafanghi. Io su altra Cross Check, anni addietro, montai le 700×45, ci andavano.

Ma torniamo sul pavé; la trazione è buona, la bici non salta più di tanto ma la forcella trasmette i colpi in modo piuttosto invadente e dietro qualche contraccolpo arriva. Non siamo a livelli di una rigida bici da corsa, me nemmeno al comfort offerto dalla Rose Dx Team. Più comoda persino la Schwinn Fastback Rx (sapete che preferisco usare a paragone bici di cui potete leggere i test su questo blog) ma è l’unica occasione in cui l’altra americana si aggiudica qualche punto in più, per tutto il resto c’è un abisso.

Come telaio da città quindi mostra qualche limite, ma forse è più corretto dire che è questa città che mostra troppi limiti a chi vorrebbe percorrerla in bici. I fortunati che dispongono di vere ciclabili e non le parodie che incontro io non avranno quasi difficoltà nell’uso. Una sola, almeno con queste taglie piccole: il piede urta la ruota anteriore sterzando. La bici è molto compatta e l’avantreno abbastanza in piedi con una forcella dal rake moderato. Un giocattolino tra le mani, sveltissima di avantreno manco fosse una Bmx; il rovescio della medaglia è appunto il contatto, prezzo da pagare per tanta rapidità. Non l’unico, ma lo vedremo più avanti.

Il problema del contatto è assai più evidente decidendo di usare pedali flat, dove è facile avanzare l’appoggio; con pedali ad aggancio la frequenza dei contatti diminuisce ma non si annulla. Ci si fa presto l’abitudine, uno lo sa e porta dietro il piede mentre sterza, però nel traffico cittadino a volte manca il tempo, la manovra improvvisa capita.

Ma per quanto pedalare nel traffico metropolitano sia una avventura pericolosa, non è questo il tipo di avventura che la Cross Check vuole, marketing sempre maledetto: lascio la città, subito. E per farlo affronto una salita non troppo impegnativa, ben pedalabile nel primo tratto, appena più ostica verso la fine. Con qualunque bici da corsa e anche alcune turistiche dal cuore sportivo tutta la parte iniziale l’affronto con la corona maggiore, di solito è una 50. Qui ho una 48, ancora più facile e così è. Quando la pendenza aumenta il peso della bici suggerisce di passare alla 34, ma la discesa di catena è avvenuta pochi metri prima del punto solito in cui alleggerisco i rapporti con bici sportive. Non si avverte alcuna necessità di rilanciare l’azione, la bici sale regolare senza avvertire netti cali di velocità. Il tutto con un elevato comfort se la pavimentazione è regolare. Basta però trovare quei 30 metri in pavé durante l’ascesa che arriva un deciso colpo alle gambe, non da piantarsi ma si fa fatica a riprendere il ritmo. Il telaio smorza poco e rimanda abbastanza, come detto complici anche le ruote di limitata sezione e finché la strada brutta è in piano si avverte solo la mancanza di comodità: se è in salita si avverte la fatica. Per fortuna abbiamo scelto un cambio capace di supportare fino al 34 finale, quindi pignoni agili non mi sono mancati; però farvi ricorso è stato poco piacevole, è rarissimo vi sia costretto, la mia parodia di ciclista sportivo vive come un affronto ingaggiarli.

Trasferimento in piano, tutte le volte che l’ho affrontato con questa bici ho sempre trovato parecchio traffico a causa di alcuni lavori in corso e conseguenti strettoie, quindi la velocità l’ho dovuta ridurre; peccato, mi è comodo come percorso perché ormai ho tutti i riferimenti. Sono circa 4 chilometri perfetti per provare i rilanci e i cambi di ritmo, ci sono due strappi dolci e uno deciso e un tratto abbastanza dissestato in leggera discesa che è un buon banco prova per saggiare la stabilità.

Ovviamente provo le stesse manovre anche su altri percorsi, ma questo resta il mio preferito perché ne conosco a memoria ogni centimetro. Bene, terminata la salita eccoci allora in piano ed è subito il momento di impegnare di nuovo la corona maggiore e aumentare la velocità. C’è un minimo ritardo, appena un battito di ciglia, nella risposta al colpo di pedale. Poi la bici parte decisa, acquista velocità in modo abbastanza rapido e torna quella sensazione di fluttuare, di scivolare sulla strada dolcemente. Mani sulla piega in presa finale per agire rapidamente sui comandi bar end e sciorinare i rapporti in rapida successione, il peso ben caricato in avanti e la velocità aumenta in maniera omogenea. Senza picchi o scatti, tu pedali, cambi rapporto, la cadenza ha quell’attimo di esitazione per l’innesto del rapporto più duro ma la velocità non ne risente e quasi senza rendertene conto inizi a superare ciclisti e auto più lente. Anche usando questa impugnatura finale, che non è il massimo per garantire maneggevolezza, l’avantreno risponde sempre in un attimo a ogni necessità improvvisa: un fosso che l’altro giorno non c’era, una macchia d’olio lasciata da un autobus appena transitato, un automobilista distratto o un pedone troppo attento a digitare messaggi per occuparsi della strada che sta attraversando e il cambio di direzione è immediato, senza scuotimenti e con la bici che torna lesta in traiettoria.

Gli strappi (su asfalto) si affrontano con piglio battagliero, senza necessità di salire di pignone: al massimo qualche pendenza un poco più impegnativa vuole che ci si alzi sui pedali per non perdere slancio, ma solo se si ha voglia di tenere un alto ritmo. E sempre se si decide di usare la bici in modo più sportivo scattare e rilanciare viene facile, la bici è piccolina e compatta, risponde sempre pronta e solo il peso talvolta frena un poco gli ardori. Per quanto sia una bici tutto sommato di impostazione turistica mostra un cuore sportivo che non ti aspettavi. Qualità che non ho rinunciato a usare perché, malgrado qualcuno voglia attribuirmi patenti di saggezza che non posseggo, in bici sono un bambino, con puerili atteggiamenti che sconfinano nel fastidioso. Come quando scatto a superare in salita chi è alla guida di leggere bici in fibra mentre io pedalo su questi cancelli tutto ferro e cromature. Ed è deprimente per lo sportivo di turno vedersi passare da una bici con parafanghi e portapacchi, credetemi. Perché è successo pure a me mentre ero in sella alla ammiraglia da corsa e non l’ho presa bene. Ma me lo sono meritato.

Mi avvicino a una delle discese del mio circuito di prova, i freni ormai sono rodati (a proposito, una volta trovato il set up questi cantilever Mk3 se la cavano a dovere e anche la lucidissima pista frenante ha grip buono), ho solo qualche timore per i rapidi cambi di direzione che troverò nella parte finale: tanta sveltezza di avantreno, finora divertente, immagino la pagherò. Primo tratto ampio e veloce, curve a largo raggio e ottima visibilità. Meglio prendere subito velocità e lasciar perdere il cambio, provare a scalare in ingresso sarebbe pericoloso con i comandi bar end anche se, almeno lì dove avevo strada libera, la manovra l’ho eseguita, grazie alla leva cambio indicizzata, aiuta in questo caso. Avendo l’accortezza di tenersi carico davanti spostando il peso la bici scende precisa e tiene ottimamente la traiettoria. E ancora una volta ho apprezzato tanto queste gomme Pasela, mi sa le monterò pure io, che offrono presa salda. Qualche dubbio in ingresso di curva, ma più che una deficienza del telaio l’impressione è che a sporcare la manovra sia il peso aggiuntivo e posto in alto del portapacchi (che ha su anche il Six Pack) perché è necessario tenere una buona presa sul manubrio. Al primo tornante sono arrivato più lesto di quanto avrei dovuto ma una bella strizzata alle leve mi ha rimesso in carreggiata e chiudere la traiettoria è stato semplicissimo. Nella serie di esse successive invece qualche incertezza c’è stata. Finché si percorre una unica curva, che sia a raggio ampio o stretto, la bici tiene sempre la traiettoria impostata e l’avantreno comunica sicurezza. Ma se si passa in rapida successione da un angolo di piega a quello opposto allora la risposta diventa nervosa, poco coerente, non si ha la chiara percezione della ruota anteriore che lavora. Diciamo che le prime volte (ricordo per i nuovi lettori che il circuito di prova è unico, ma alla scrittura dei test ci arrivo solo dopo averlo percorso molte volte) per un momento il dubbio che ne sarei venuto fuori intero mi è venuto, quelle cose tipo “ops, chissà adesso che succede…”. Per fortuna nulla è successo, e una volta capito il limite è bastato caricare in modo più deciso l’avantreno aiutandosi col proprio peso per ottenere un comportamento più prevedibile.

Tornato di nuovo in pianura e con strada libera è stato divertente tirar fuori l’anima sportiva di questa Surly, mi ha ricordato molto le bici da corsa in acciaio non specialistiche di anni fa. Non è un errore di battitura, preferisco non specificare. Il tragitto in piano che mi avrebbe condotto alla mia salita topica, quella che mette alla frusta me più che le bici, è stato un susseguirsi di scatti per andare a prendere qualche ciclista, rilanci per alzare sempre più l’andatura, bruschi rallentamenti per ammirare il panorama (a cui mai mi abituerò) seguiti da nuovi rilanci in fuorisella per riportare in alto la media. Tutto come fossi in sella a una bici sportiva e non a questa bomboniera pronta per le vetrine del centro.

Ed eccola la salita vera, un ultimo rilancio per sfruttare al massimo l’abbrivio e aggredirla con ogni vantaggio posso prendermi. I primi metri scorrono facili, la bici conserva una ottima inerzia e quando prendi velocità la tiene a lungo, anche se la strada sale. Ma il peso è un dato oggettivo, per quanto telaio e ruote si comportino bene, portare in cima questi 13 kg non è come salire con la ammiraglia da 6 kg. Perso ogni bonus dato dall’ingresso molto veloce sono dovuto passare subito sulla corona minore, mi sono accertato di avere almeno due pignoni liberi ancora da sfruttare per quando la pendenza sarebbe aumentata, mi sono seduto piazzando le mani in presa finale (oltre che per avere le leve cambio subito disponibili, abbassarsi è un buon modo per fare meno fatica: il sangue affluisce più velocemente alle gambe ossigenando i muscoli) e ho scelto la regolarità. Nel tratto finale, che ha una pendenza elevata, non è stato necessario impegnare il pignone più agile (34) perché il penultimo (30) è stato sufficiente. Avrei anche potuto restare sul terz’ultimo (26) magari affrontando in fuorisella la parte peggiore, ma sarebbe stata una fatica inutile. Perché vi racconto questo? Perché malgrado la modesta gamba mia e il peso della bici, il risultato è ottimo. Merito del telaio, che in questo frangente ha mostrato una perfetta capacità di trasferire l’energia a terra, come fossimo su una bici sportiva di razza. Si, il peso a un certo punto mi ha ricordato che per certe velocità dovrei curare meglio il mio discontinuo allenamento, ma con una altra bici, per esempio la Schwinn Fastback Rx che pesa persino qualcosa in meno, mi sarei sognato un simile passo su una salita così, sarei crepato prima, molto prima…

Ripercorrendo la salita azionando il cronometro in una successiva uscita ho scoperto di averci impiegato appena 47 secondi in più del tempo che mi ci volle con la Rose Dx Team, bici più leggera e con me in stato di forma migliore. Su una ascesa complessiva che a seconda della bici usata impiego da poco meno di 19 ai 26 minuti a completare, è un ottimo tempo.

In cima è il momento di scendere e deviare per raggiungere una zona ricca di sentieri in terra battuta per scoprire se il nome Cross è stato scelto a caso o ha la sua ragione.

Si, ha una sua ragione ma non con le gomme montate, le Pasela sono troppo stradali per avere grip sufficiente. In piano e salite moderate la trazione c’è ancora, in discesa le cose peggiorano e nelle salite più impervie la ruota posteriore slitta sotto la spinta dei pedali. Il rischio di scivolare non voglio correrlo, come potrei consegnare la bici graffiata? Quindi modero il passo, corona minore, postura a sfiorare la sella e via a pedalare. La terra ben battuta scorre via facile, ogni ostacolo o imprevisto viene subito risolto dall’avantreno sveltissimo e sarebbe tutto più divertente avendo dei comandi cambio integrati. Con i bar end è complicato quando a causa di un rallentamento per evitare un fosso hai necessità di salire di pignone per riprendere cadenza e velocità. Però anche in questo caso torna utile la pronta riposta del telaio, basta alzarsi per pochi metri sui pedali e la bici torna a correre come prima. Peggiorando il terreno rallenta il ritmo e iniziano ad arrivare colpi alle mani e alle braccia perché la forcella più di tanto non assorbe, complice un tubo sterzo che, come tradizione Surly, è decisamente compatto. Probabilmente molto dello scarso comfort è dovuto anche dalla necessità di tenere le braccia più tese per impugnare saldamente il manubrio. Tra la tanta sveltezza e il peso aggiuntivo del portapacchi, il manubrio sballonzola un poco troppo tra le mani richiedendo presa salda. Però sui sentieri meglio battuti e raggiunta una buona velocità si riesce a tenere le mani appena a sfiorare i copricomandi, lo sterzo viaggia preciso. Ed è una pratica che ho messo a frutto anche sul pavé. L’importante è essere abbastanza veloci, almeno a sfiorare i 30 km/h, altrimenti l’avantreno non si stabilizza in sicurezza.

Nel misto molto stretto tipico dei boschi è stato uno spasso, sempre. Le velocità sono modeste a causa dei continui slalom per evitare radici e alberi e in questa situazione le gomme non necessitano di grande grip mentre l’avantreno sveltissimo rende ogni manovra possibile e semplice, anche senza essere dei maghi in fuoristrada.

Mettiamoci allora nei panni di un normale ciclista a cui piace girovagare senza precludersi nulla, una uscita in bici per il solo gusto di pedalare scegliendo le strade man mano che si presentano innanzi. Si troverebbe bene con questa Surly Cross Check? Non bene, benissimo. Su strada, peso a parte, si comporta in modo molto gratificante, consentendo passo e rilanci degni di una buona sportiva, con la netta percezione di stare sempre trasferendo su strada l’energia delle nostre gambe, senza perderla in mille rivoli. Senza contare che assemblando questo telaio senza fronzoli, con componentistica leggera e con due ruote sportive ci si tiene attorno ai 9kg: il peso di tante bici da corsa in alluminio di fascia economica; che però non offrono lo stesso gusto nella guida.

Il passo è molto buono per una bici votata al tuttofare, la bici conserva velocità e questo aiuta per un sorpasso, uno strappo, uno scatto; un attimo di dubbio quando c’è da rilanciare l’andatura, una frazione di secondo e nulla più e poi ogni pedalata è a terra, con la bici che aumenta velocità senza incertezze.

Solo nelle discese più strette e veloci bisogna avere qualche accortezza perché l’avantreno non rende chiaro come stia lavorando ed è sempre bene caricare il peso per dargli stabilità. Avrei dovuto, ma non l’ho fatto, provare senza il peso aggiuntivo del portapacchi per fugare ogni dubbio, lo so. Non l’ho fatto, non volevo smontare e rimontare per l’ennesima volta questa bici. Mea culpa.

In città risente solo del problema del contatto tra la punta del piede e la ruota anteriore, altrimenti grazie alla stupenda maneggevolezza e l’ottimo spunto i percorsi urbani si trasformerebbero in un enorme parco giochi. L’aver scelto i bar end in luogo di comandi integrati (il progetto originario era orientato su un gruppo Campagnolo) non ha infastidito più di tanto nel traffico cittadino, mentre il freno posteriore, a causa del tipico fermaguaina Surly, ha mostrato un ritardo di risposta fastidioso in uso urbano, inavvertibile su strada aperta.

In fuoristrada, con rapporti agili e ruote adeguate, consente di affrontare qualunque percorso; in allestimento stradalizzato c’è da fare i conti con lo scarso grip delle gomme, ma ogni sentiero è alla portata. Insomma, se vien voglia di scoprire dove porta lo si scopre, basta non incontrare fango. Sennò bici in spalla.

Quanto marketing e quanta sostanza in questa bici? Molto, per fortuna sia dell’uno che dell’altro. Si, è proprio la bici per fare quello che vi pare. E poi questa è pure bella, e questo non guasta mai.

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COMMENTS

  • <cite class="fn">Benedetto Tozzi</cite>

    Buongiorno,

    faccio fatica ad interpretare (sulla carta) le geometrie di questa bici. Sembra avere un rapporto stack/reach da bici racing in alcune taglie. Il proporzionamento poi cambia parecchio, ad esempio passando dalla 54 alla 56 il reach rimane praticamente identico mentre lo stack aumenta di quasi due centimetri. Con le misure che ho io sulla mia bici attuale (CAAD 12) dovrei utilizzare nella 54 o nella 56 un attacco molto corto (80 o 90 a occhio) oppure prendere una 52 ma avere troppi spessori sotto al manubrio.
    In generale, comunque, mi sembra molto “allungata”… sbaglio per caso? Come esperienza personale (davvero piccola però) ho visto che attacchi manubrio corti tendono a rendere nervoso lo sterzo, soprattutto a bassa velocità.

    Saluti

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Benedetto, la CC è uguale a se stessa da moltissimi anni; e ora che le gravel sono praticamente in ogni listino, accusa il confronto.
      Non nacque come gravel ma come tuttofare di indole sportiva, perché una volta che ci pedali ti accorgi che (peso a parte) ha davvero un comportamento molto sbarazzino.
      La scuola USA nei telai ha sempre preferito “allungare” un poco le bici rispetto a noi; però nel caso della CC quello che, come rilevi, la limita spesso è la lunghezza del tubo sterzo. Retaggio di quando fu disegnata, ora son quote che nessuno più propone.
      Prima o poi si adegueranno, anche se c’è da dire che è telaio ancora molto apprezzato. Solido, robusto, godibile, facile da montare a piacimento.
      Prima o poi…

      Fabio

      • <cite class="fn">Benedetto Tozzi</cite>

        Grazie per la risposta! Io diciamo che mi sono fatto una esperienza sul campo proprio comprando un CAAD12 taglia 54 venendo da una Rose SL 2000 taglia 55. Dopo visita biomeccanica, ho avuto il posizionamento precendente stravolto (della più alta di 2 cm e avanzata di 2 cm, nonché distanza sella manubrio ridotta). Questo nuovo posizionamento che mi piace molto e mi ha permesso anche di migliorare parecchio (è orientato alla performance, diciamo) mi ha portato a montare un attacco da 90 e nessuno spessore sotto il manubrio. Alla fine ho scoperto che la taglia che mi dicevano da anni essere adatta a me è in realtà grande: a conti fatti con una 52 e un attacco da 100 – 110 sarei probabilmente stato meglio. Perché dico questo? Ho notato, ma nulla di scientifico, che un attacco da 90 mi rende la bici “nervosa” alle basse velocità. Con questa Surly praticamente avrei addirittura un attacco da 80 con la taglia 54 oppure un sacco di spessori sotto il manubrio con una taglia inferiore. Queste esperienza e un po’ di letture mi hanno evidenziato una cosa ovvia, credo, ma di cui poco si parla ovvero che non è detto che la bici che ci piace abbia una taglia “adatta” a noi (ad esempio col CAAD 12 sarebbe stato perfetto per me una taglia intermedia fra 52 e 54)
        Completi per il blog e grazie ancora per la risposta!

        • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

          Ciao Benedetto, una Cross Check non è comparabile.
          E’ un equivoco in cui cadono in tanti, prendendo le geometrie (e di conseguenza le taglie, perché poi una geometria questo è) della propria bici da corsa e usarle per altre tipologie di bici.
          Non è così. L’unico punto fermo sono le proprie misure antropometriche, che andranno riportate su un dato telaio a seconda della sua tipologia.
          Come ho avuto modo di scrivere di recente rispondendo a una mail di uno di voi, io non ho una sola bici uguale all’altra (e al momento, causa test, sono 8 o 9 credo…) eppure ognuna è giusta per me. Dalla sportiva pura alla comoda endurance, dalla gravel tuttofare a quella sbarazzina, dalla commuter allroad alla randagia tutta scintilii.
          Il dislivello sella/manubrio invece è discorso a parte e c’entra nulla con la taglia; nel senso che lo regoli anzitutto in base alla tua elasticità. Poi valuti anche la tipologia, non ha senso avere manubrio basso su una gravel, per esempio.
          Lunghezza attacco manubrio, anche qui il discorso è differente.
          Posto che è necessario, nonché salutare, arrivare alla migliore triangolazione e che quindi se si adotta una geometria lunga allora si compensa accorciando attacco, c’è da ricordare che troppi si aggrappano al centimetro in più o in meno dandogli più importanza di quella che riveste; e che, hai ragione, un attacco corto alleggerisce l’avantreno (da qui il tuo sentirlo nervoso) perché varia la distribuzione del peso.
          Ma basta flettere le braccia, allungarsi un poco e il carico torna.
          Dai una occhiata al test pubblicato oggi del Met Allroad; lì troverai due immagini, due riprese laterali su bici gravel ma diverse tra loro per geometrie e impostazioni, e noterai la differente posizione del busto. Ok, quelle foto mi servono per il casco, per mostrare come la visiera non intralci, ma sono comunque una valida rappresentazione di come la taglia è un range e non un misura assoluta. Persino quando progetti un telaio su misura, anzi, lì ancor di più. Perché valuti le geometrie in base alle tue misure e all’uso/resa dinamica della bici. Infatti la mia seconda Elessar, che ho disegnato per sostituire la prima che mi fu rubata, è diversa dalla sorella che l’ha preceduta.

          Fabio

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