Ho osato vincere

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Un anno importante, il 1969.

Tanti gli avvenimenti che hanno cambiato il corso della storia o hanno fatto la storia, dal drammatico sacrificio di Jan Palach alla più imponente marcia contro la guerra in Vietnam, il Moratorium day.

L’uomo sbarca sulla Luna, una sonda raggiunge Marte, nasce ARPANET, padre dell’internet che conosciamo.

L’Italia abolisce le gabbie salariali, introduce la pensione sociale e consente a chiunque l’iscrizione all’università, non solo a chi ha frequentato il liceo. Ma anche mesi bui, culminati a dicembre con gli attentati di Piazza Fontana e Roma, la morte di Pinelli e l’inizio di quella escalation di violenza che porterà agli anni di piombo.

In altra parte del mondo si celebrano libertà e pace universale. L’anonima cittadina di Bethel nello stato di New York accoglie Woodstock, il più grande raduno musicale mai avuto fino a quel momento, superando in pubblico lo storico concerto tenuto pochi mesi prima a Londra dai Rolling Stones per salutare Brian Jones.

Il 20 luglio 1969 Francesco Moser corre la sua prima gara. E, credetemi, anche questo è uno degli avvenimenti che cambierà la storia del ciclismo.

Non l’unico Moser a spingere sui pedali, prima di lui i suoi fratelli si sono e si stanno distinguendo in quegli anni; Aldo, soprannominato il piccolo Coppi e designato come l’erede di Bartali (segno di come la stampa fosse volubile anche allora…) che vestirà la maglia rosa. Enzo, anche lui indosserà il rosa. Diego, che però preferirà tornare alla sua amata campagna.

Già, la campagna, un ambiente che mai mancherà nel cuore di Francesco, uomo legato alle proprie origini perché, come dirà egli stesso, nessuno è straniero se ha sempre dove tornare. La campagna di Palù di Giovo, la frazione del paese che non esiste: una frazione che ci ha dato uno dei più titolati ciclisti al mondo e, tra fratelli e parenti vari, oltre trecento gare vinte, cento giorni in maglia Rosa e tre Giri d’Italia, a tutt’oggi. Non male per questo paesino che guarda la Paganella in una regione famosa per l’esportazione del porfido e dei sacerdoti: grazie ai Moser diventata celebre anche nel ciclismo.

Una storia, quella di questo ciclista caparbio come solo la gente di montagna sa essere, gentiluomo come solo la gente di campagna sa essere, curioso come solo i grandi sanno essere, che vale la pena essere conosciuta.

L’occasione ce la fornisce la collana “Strade blu” di Mondadori, che ha da poco pubblicato “Ho osato vincere”: Francesco Moser che si racconta a Davide Mosca.

Bellissima la copertina, Moser impegnato alla spasimo in pista e quella frase “Ho vinto spesso, qualche volta ho perso, non ho mai partecipato” che tira una linea sui principi del buon De Coubertin ma ci rimanda l’uomo, il ciclista idolo per noi che abbiamo superato gli anta.

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E credo anche per i più giovani, che spesso pedalano senza sapere quanto devono a Moser.

Lui che ha sempre rincorso, tutti a dirgli che era tardi in ogni cosa, era già troppo in là con gli anni ogni volta si cimentava in una nuova impresa. Ha rincorso si, ma ha battuto il mito: Città del Messico, 19 gennaio 1984, infranto il muro dei 50 km/h e nuovo record dell’ora, spodestando il Cannibale dal trono; quattro giorni dopo abbattuto il muro dei 51 km/h, sempre sull’ora.

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Da quel team nato per il record abbiamo ereditato tanto; tecniche di allenamento, di preparazione atletica, nutrizione, supporti tecnologici e ingegneria della bici.

Oggi il cardiofrequenzimetro è adoperato da una moltitudine di ciclisti amatoriali, le ripetute le facciamo anche noi pedalatori della domenica, la soglia anaerobica è concetto entrato nel lessico comune, le ruote lenticolari la norma nelle crono, l’abbigliamento aderente studiato in galleria del vento pratica diffusa, e così tanto altro che per noi è come fosse tutto sempre esistito. No, esiste perché a chi consigliava a Moser di lasciar perdere, che era vecchio, che tentare di battere il record di Mercx avrebbe posto fine alla sua carriera, che non ce l’avrebbe fatta e mai più avrebbe recuperato da quello sforzo lui rispose alla sua maniera: sui pedali a superare il vento.

Lui vinceva il Giro, io pedalavo sulla mia Bianchi con ruote da 24″ e dieci rapporti e per strada quel “Vai Moser!” gridato da chi mi incrociava era per me l’incitamento della folla. Col plexiglass tentai anche un improbabile rivestimento lenticolare alle ruote, con esiti disastrosi. Ovvio quindi che il libro l’ho letto in un solo fiato.

Grazie alle sue parole ho conosciuto meglio l’uomo, perché sopra una bici c’è sempre un uomo, senza è solo un pezzo di ferro; ho capito meglio quello che in televisione, guardando le tappe del Giro, avevo intuito ma non afferrato; sono entrato in un mondo che amo potendolo osservare dall’interno, con una visuale forse non sempre politicamente corretta ma vera, reale. Le proposte indecenti in gruppo, che tutti sappiamo esistere ma che tutti negheranno, le rivalità vere o presunte e quelle create ad arte dalla stampa, il valore della parola data che supera qualunque proposta di contratto economicamente più vantaggioso, la capacità di covare vendetta e la generosità in un microcosmo che in fin dei conti è specchio del mondo reale, anche senza i pedali.

Non potrà ricordarsi di me, presentazione del Giro d’Italia 2013, io che mi trovo davanti all’improvviso il mito in persona: una stretta di mano, un mio “grazie per quanto ha dato al ciclismo”, un timido sorriso di risposta. Ma io conservo ancora il calore di quella stretta di mano.

Come posso allora essere obiettivo? Non posso, e non importa. Questo libro mi è piaciuto, ringrazio il sempre gentile Igor che me ne ha fatto omaggio, e sono certo piacerà a chiunque pedali. Anche a chi in bici non ci va con piglio sportivo, perché si, qui si racconta la carriera di un campione, ma si conosce soprattutto la storia di un uomo. Una storia che valeva la pena essere raccontata, al di là delle medaglie, dei trofei, dei record.

La frase che più mi ha emozionato? La madre, che dopo la vittoria nel campionato del mondo a chi le chiede cosa cambierà per lei adesso, risponde serafica: “Avrò una maglia in più da lavare”. Con una madre così Francesco Moser ha battuto il vento, ma i piedi gli sono rimasti sempre ben saldi nella terra. E, tra il serio e il faceto, scopriamo che la madre è stata fondamentale anche a temprare la gamba, allenando il giovane Francesco a evitare i suoi ceffoni.

Tanti gli episodi narrati, non avrebbe senso riportarli qui; meglio leggerli direttamente dalla pagine di questo libro.

Tanti gli aspetti in cui mi sono riconosciuto, dalla volontà di non fermarsi mai, sempre alla caccia del prossimo obiettivo, allo sport come sfida anzitutto contro i proprio limiti.

Per nulla singolare la scelta Davide Mosca nell’aiutare Moser a dipanare i ricordi; autore di romanzi storici è la penna giusta per raccontare le gesta di un campione che, spesso, si è paragonato ai gladiatori nell’arena. Soli a combattere una incruenta battaglia in onore del pubblico, dei tifosi, di quelli che passano ore a bordo strada per catturare una veloce immagine di un gruppo che sfila o di un ciclista in fuga o non esitano a volare dall’altra parte dell’oceano per applaudire il loro idolo.

Siamo in estate, iniziamo la lista delle letture che porteremo con noi in vacanza: un titolo è già scelto 🙂

Ah, dimenticavo un altro evento importante: nel 1969 sono nato io…

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