Hai voluto la bicicletta

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La fatica: gioia e maledizione della bicicletta.

E’ il suo fascino, noi che pedaliamo amiamo soprattutto le salite, conquistarle è il nostro obiettivo, ogni cima un trofeo. Stanchi, spossati, le gambe che tremano per lo sforzo, il sudore a bruciare gli occhi eppure felici, una gaiezza dello spirito se non del corpo che chi non ha questa passione non può comprendere.

Ci vuole amore per accettare questa fatica, chi non lo prova la vivrà come un limite, si chiederà perché sprecare il proprio risicato tempo libero per pedalare ore, tornando a casa stravolto e stanco.

E se condividerà con altri ciclisti le sue perplessità si sentirà rispondere: “Hai voluto la bicicletta? Allora pedala!”

Senza il punto interrogativo la domanda muta in affermazione, un dato di fatto che diventa a sua volta il titolo di un simpatico libro edito da Sellerio, in cui Laura Grandi e Stefano Tettamanti curano una antologia di scritti dove protagonista è la bici; anzi no, protagonisti sono i ciclisti; anzi no, protagonista è la fatica, bella e maledetta.

Più del titolo preferisco però il sottotitolo: “Il piacere della fatica”.

Un ossimoro per chi non ha la nostra passione; un manifesto per noi.

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Una volta ho scritto che la bicicletta, dalla sua nascita, ha ispirato poeti, romanzieri, scrittori e avventurieri. Cosa li ha colpiti? La velocità? Forse, si percorreva più strada e più velocemente di un cavallo. Lo spirito di libertà? Forse, riuscire a coprire lunghe distanze in autonomia ancora oggi ci avvicina al sogno di volare, liberi. L’idea del futuro che stava arrivando? Forse, la rivoluzione industriale era in atto, la fine del XIX secolo ha visto depositare più brevetti di quanti ne saranno poi registrati in quello successivo.

Troppi forse, ho una certezza: li ha colpiti la fatica, la sfida dell’uomo ai propri limiti, la volontà di superarli. Pensateci; bici da almeno una ventina di chili, ruote improponibili, freni ipotetici, nessun cambio e loro ad affrontare salite e discese per centinaia di chilometri con qualunque tempo, neve e pioggia comprese. Agli albori dei grandi Giri si pedalava dall’alba al tramonto per giorni; anche dopo il tramonto. Senza assistenza, se foravi o rompevi dovevi vedertela tu; senza ristoro, acqua e cibo dovevi procurarteli tu; senza strade chiuse al traffico e percorsi chiaramente indicati, se ti perdevi erano chilometri in più.

Come si fa a non amare uomini così? E infatti li hanno amati poeti, romanzieri, scrittori e avventurieri. Li amiamo anche noi, capaci di passare ore assiepati a bordo strada per godere di quei pochi attimi in cui uno sciame colorato sfreccia inseguendo una meta che solo lui vede, qualcosa che è oltre la semplice striscia da tagliare primo. Un secolo fa come oggi.

Ed è un secolo o quasi di ciclismo che i curatori di questa raccolta ci fanno rivivere. Attraverso gli scritti di Alfredo Oriani, che agli albori del ‘900 compone: “Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà […] Andarsene ovunque […] senza preoccupazioni come per un cavallo, senza servitù come in treno. La bicicletta siamo ancora noi che vinciamo lo spazio e il tempo…”. Quanto noi modesti artigiani della parola abbiamo saccheggiato dalle sue pagine…

O le parole di Vasco Pratolini che raccontando del Giro del ’47 va oltre il gesto atletico, la cronaca, le salite, le discese, le fughe per portarci nella corsa, nel cuore e nella mente di Coppi e Bartali, nei suoni e nei colori della carovana al seguito, nelle cose dette e non dette, i gesti appena accennati e gli sguardi che da soli valevano la corsa intera.

Ancora; Anna Maria Ortese, al seguito del Giro del ’55. Una donna, evento raro e unico per quei tempi, che ci guida sulle strade della corsa ma al di là del gruppo in corsa per mostrarci un Giro diverso, con protagonisti differenti da quegli uomini sudati a stravolti dalla fatica e farci conoscere tutto ciò che intorno a una grande corsa a tappe ruota.

Ancora; Alfonso Gatto, che ci ricorda Brizzi, corridore dei primi del ‘900, ormai condannato alla sedia a rotelle da una paralisi alla gambe ma volle scendere in strada a salutare il Giro, illuminandosi in viso al suo passaggio per poi accasciarsi e piangere nella fuga di un mondo che era stato il suo.

Ancora; Dino Buzzati, che al seguito del Giro del ’49, forse uno dei più avvincenti mai corso, non ci racconta gli eroi Coppi e Bartali ma i gregari, gli ultimi, quelli che arrivano stravolti al traguardo quando i big come usa dire adesso sono già in albergo. Ma senza i quali i loro capitani non sarebbero andati da nessuna parte, perché il ciclismo è lo sport di un uomo solo che vince: ma se ha una squadra che lo aiuta.

Ancora; due Gianni, Brera e Mura la migliore penna che abbiamo avuto e la migliore penna che abbiamo per farci vivere le emozioni del nostro amato sport. Franco Cordelli, Gian Luca Favetto, Cesare Fiumi, Achille Campanile, Stefano Benni e tanti altri, ognuno col suo scrigno di parole per raccontarci le storie del ciclismo.

Storie di uomini che hanno voluto la bicicletta, hanno voluto la fatica e l’hanno amata. Come noi.

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COMMENTS

  • <cite class="fn">Giorgio</cite>

    L’ho da poco “divorato” anch’io e subito dopo sono corso ad aquistare “La fiamma rossa” di Brera e “Cronache dal Giro” di Buzzati.
    Quella passata è stata un’estate memorabile anche grazie a loro.

  • <cite class="fn">calogero</cite>

    Credo che uno della vecchia generazione di giornalisti che ancora scrivono di ciclismo e che trasmettono passione e riescono anche a commuovere sia il grande Giampaolo Ormezzano che leggevo su Famiglia Cristiana a cui era abbonata una mia zia negli anni 60-70 , e che di tanto in tanto si vede in tv al giro, ma non so in quale giornale scrive o collabora attualmente, fino a qualche anno fa mi sembra era essendo di Torino lavorava a Tutto sport.

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